Andrea Furcht

Alcune relazioni tra crisi economica e immigrazione dai paesi in via di sviluppo

Parte 3 di 6


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2 Alcune osservazioni per categoria socioeconomica di immigrazione

In sede di analisi costi-benefici succede spesso di considerare la popolazione nativa (ed anche quella immigrata) come un blocco omogeneo - è questo solitamente il caso delle argomentazioni tese a dimostrare gli svantaggi (od i vantaggi) derivanti ad una determinata nazione dall'afflusso di lavoratori stranieri.

Come tentare analisi maggiormente disaggregate? Una possibilità è quella di suddividere gli immigrati per provenienza[1]. è questo un approccio assai utile nei molti casi (l'Italia non fa eccezione) nei quali vi sia una stretta connessione tra origine e progetto migratorio oppure status socio-professionale.

Un'altra possibilità è quella di distinguere sia autoctoni che immigrati per posizione socioeconomica (con particolare riguardo al mercato del lavoro), studiando poi le interazioni tra i sottogruppi. Seguirò quest'ultima impostazione, limitandomi però a considerare separatamente le principali categorie di immigrazione[2], con saltuari riferimenti a quelle dei nativi. Tra questi ultimi sono generalmente imprese e consumatori ad attendersi un maggior beneficio dall'immigrazione: lavoratori, disoccupati e sottooccupati tendono per contro a trovarsi in situazioni di più accentuata competizione[3]; questo nell'ipotesi standard che i flussi migratori siano per lo più costituiti, nella loro componente produttiva, da aspiranti lavoratori subordinati.

In tempo di crisi però i potenziali vantaggi per i nativi si attenuano, viceversa si esaltano i risvolti negativi. Questo è particolarmente evidente sul mercato del lavoro: le imprese hanno meno bisogno di manodopera supplementare, mentre per i lavoratori ogni aumento di offerta ha serie conseguenze poiché diminuiscono le chances di ritrovare il posto se lo si perde. L'immigrazione contribuisce così a cambiare i rapporti di forza su un terreno - delicatissimo e di fondamentale importanza per la società di arrivo - ove già sono all'opera violente spinte di cambiamento. Non va dimenticato che, dal punto di vista dell'economista, un'accresciuta concorrenza per un fattore produttivo (in questo caso il lavoro nazionale) contribuisce ad aumentare l'efficienza del sistema - e quindi anche la soddisfazione del consumatore[4]. Inoltre va considerato che per molti prodotti o anche servizi la concorrenza eventualmente cacciata dalla porta con politiche protezionistiche sul piano dell'immigrazione produttiva rientrerebbe dalla finestra degli scambi internazionali.

2.1 I lavoratori complementari

Considero tali i lavoratori subordinati che soddisfano quelle aree di domanda di lavoro per i quali non vi è sufficiente offerta locale al salario ritenuto accettabile per il sistema economico[5]. In una congiuntura economica avversa questa componente può vedere i propri spazi ridursi per due ordini di motivi:

1.    anzitutto, a causa del restringersi delle opportunità professionali per una parte della forza-lavoro nativa, che può venire così indotta ad accettare mansioni precedentemente rifiutate[6]. Possiamo però attenderci qui una notevole rigidità verso il basso, che dovrebbe contenere il fenomeno: molti nativi dovrebbero insomma preferire una disoccupazione temporanea ad un ridimensionamento delle proprie aspettative socioprofessionali;

2.    il calo del reddito disponibile dei privati, unito al maggior tempo disponibile a causa dei tagli occupazionali o della contrazione dell'orario di lavoro, può condurre ad una flessione della domanda (si pensi in particolare ai collaboratori familiari).

Non si dimentichi inoltre che, per talune di queste occupazioni, è concepibile un effetto di saturazione nel breve: i posti disponibili possono essere limitati, o comunque l'utilità marginale di questo tipo di afflusso calare con l'aumentare dello stock di presenze[7]; questo effetto diventa più probabile in assenza di uno slittamento verso l'alto della soglia di rifiuto da parte dei lavoratori autoctoni. Nel lungo periodo invece è possibile che la disponibilità di lavoro a buon mercato possa influenzare la tecnologia in senso capital-saving (cfr. per es. Tapinos 1994, p.463) - e perciò dilatare lo spazio per questa categoria e per la seguente.

2.2 Gli altri lavoratori subordinati

Prendiamo qui in considerazione chi ha un regolare rapporto di lavoro dipendente e non rientra nella categoria precedente. In questo caso la conflittualità con i lavoratori autoctoni quindi più elevata.

L'esperienza insegna che solitamente sono gli immigrati a correre un maggior rischio di licenziamento in caso di ridimensionamento dell'organico aziendale. Questi lavoratori si troverebbero così a svolgere il poco gradevole ruolo di ammortizzatore sociale rispetto alle oscillazioni congiunturali (cfr. ad es. Tapinos 1994, p.462).

Il fattore cruciale, nel nostro caso, è il comportamento delle imprese nazionali di fronte alla riduzione della domanda dei beni da esse prodotti. Le grandi imprese in particolare possono essere indotte a maggiori investimenti per tagliare i costi, soprattutto di manodopera. Ma non tutte ne hanno le risorse finanziarie, la capacità tecnica, la volontà[8].

Per le piccole imprese la tentazione potrebbe essere allora quella di incrementare il ricorso al lavoro nero per ridurre le spese contributive o fiscali (sul rapporto tra immigrazione irregolare e "immersione" dell'economia si veda Dell'Aringa-Neri 1987). Qui l'offerta di manodopera straniera potrebbe allora rivelarsi un fattore strategico, anche se per gli immigrati precedentemente occupati in maniera regolare si tratterebbe di una discesa nella scala sociale. Non è perciò detto che l'immigrazione debba fungere necessariamente da cuscinetto sul mercato del lavoro: la posizione potrebbe invece essere decisamente concorrenziale, anche se si tratterebbe di una competizione prevalentemente indiretta - in forma cioè interaziendale, mentre più limitati potrebbero essere i casi di sostituzione secca sullo stesso posto di lavoro.

2.3 I lavoratori autonomi

In alcuni casi è ipotizzabile una complementarietà economica nei riguardi dei nativi analoga a quella dei lavoratori subordinati: questo è vero in particolare per molte attività artigianali, per le quali si registrano carenze di offerta; ma può valere anche in proporzione alla novità del bene o servizio in questione (ristorazione esotica, importazione di articoli in precedenza assenti dal mercato, servizi di interpretariato per lingue rare). Possono inoltre far parte di questa categoria artigiani, professionisti e piccoli imprenditori specializzati in servizi etnici (destinati cioè principalmente ai membri del proprio gruppo).

In generale, i consumatori nativi vengono avvantaggiati dall'ampliamento della possibilità di scelta; le imprese nazionali, nel caso di totale assenza di sostituibilità dei prodotti, soffrono solo di una concorrenza estremamente indiretta, quella tra impieghi alternativi del reddito dei potenziali acquirenti[9]. Per i lavoratori subordinati nativi il danno è proporzionale a quello subito dagli imprenditori, corretto però dalla possibilità di venire assunti, o almeno dall'alleggerimento dell'offerta di lavoro che si deve a queste nuove attività economiche (al netto però dell'effetto di richiamo di ulteriore immigrazione).

In recessione succede però che:

*   la contrazione dei consumi inasprisce la concorrenza al ribasso sui prezzi, rendendo oltretutto più rilevante la generica competizione sul reddito disponibile dei consumatori;

*   come già accennato, per i lavoratori locali si fa più importante il posto di lavoro, per la maggiore difficoltà di ritrovarlo;

*   declinano le opportunità di mobilità verticale ascendente (uno dei principali vantaggi derivanti dall'immigrazione per i lavoratori autoctoni).

Per quanto invece riguarda l'amministrazione pubblica, qualsiasi porzione aggiuntiva di attività economiche dovrebbe tradursi in un incremento di gettito fiscale. Si deve però tenere conto dell'effetto congiunto di un eventuale danneggiamento dell'imprenditoria locale e dell'eventuale differenza media di evasione di norme e tributi rispetto alle attività preesistenti; a questo può aggiungersi, nei sistemi ad imposizione progressiva, la possibilità di un diverso gioco di aliquote. Si tratterebbe insomma di una parziale sostituzione di imponibile, bisogna vedere se con effetto netto maggiore o minore di zero.

2.4 I marginali

Ci occupiamo qui di coloro che non hanno un lavoro regolare, includendo quindi disoccupati e semi-disoccupati (a meno che il part-time o la saltuarietà non siano una libera scelta, dovuta ad esempio ad esigenze familiari o di studio), oppure chi lavora in nero.

La condizione di marginalità può essere considerata fisiologica nella carriera migratoria qualora corrisponda ad un breve periodo di anticamera, destinato all'orientamento tra le diverse occasioni di lavoro[10]. è però possibile che tale anticamera si dilati fino a costituire una fase importante od addirittura definitiva della vita nel paese d'arrivo. Ed è più facile che ciò accada quando (come è prevedibile succeda nei periodi di congiuntura avversa) aumentano coloro che emigrano senza un progetto migratorio preciso, al di fuori di quello di cavarsela in un qualsiasi modo - o sono comunque costretti a ripiegare su un simile progetto dalla carenza di sbocchi lavorativi una volta raggiunta la meta.

Come negli altri casi, l'effetto dell'immigrazione di lavoratori marginali sul benessere degli autoctoni dipende soprattutto dal ruolo produttivo di questi ultimi: possiamo ritenerlo generalmente positivo per imprese e consumatori, tendenzialmente sfavorevole per i lavoratori regolari e decisamente sfavorevole per i disoccupati e gli altri marginali nativi (cfr. Furcht 1994).

Del tutto ovvia invece la valutazione nel caso delle attività non-produttive (si va quindi dai piccoli espedienti, al vagabondaggio, alla criminalità vera e propria): specialmente in tempi di marcata disoccupazione, quando minore è la possibilità di recupero sociale, questa è evidentemente una categoria che non porta vantaggio a nessun gruppo di autoctoni[11].

In Appendice prenderemo in considerazione quella significativa (almeno qualitativamente) componente dei marginali costituita da coloro i quali intraprendono la carriera criminale. Da una parte questi costituiscono la componente dell'immigrazione meno auspicabile per il paese di destinazione, dall'altra rischiano di catalizzare sentimenti xenofobi, magari presenti comunque, e gettare un immeritato discredito anche sulle componenti produttive dei flussi[12].



[1] Si veda ad esempio Melotti 1989, oppure Mottura 1993 che scrive (p.279): "... è emersa un'alta frequenza di correlazioni positive tra ricorso ai sindacati e appartenenza a determinati gruppi nazionali (o a parti significativamente individuate di alcuni di essi). Ciò, mi sembra, legittimerebbe l'ipotesi d'una influenza non secondaria delle caratteristiche soggettive dei differenti gruppi nella determinazione delle pratiche migratorie in cui sono coinvolti, e in particolare delle modalità secondo le quali avviene prima l'impatto con il contesto italiano e poi l'inserimento in esso".

[2] Rispetto a precedenti analisi (Furcht 1994) mancherà una trattazione dei Consumatori immigrati. Si veda comunque l'1.5, punto b.

[3] Temperata però da altri effetti, quali un incremento nelle opportunità di promozione sociale (cfr. Ichino 145-6, che riporta le conclusioni di diverse ricerche, e Furcht 1994).

[4] Scrive Garonna 1993, p.35: "Si badi bene che il giudizio di "negatività" attribuito alla sostituzione tra lavoro immigrato e locale non deriva direttamente dall'analisi economica: se si trattasse di analizzare un fattore produttivo qualsiasi in un mercato qualsiasi, lo spiazzamento del fattore meno competitivo (più costoso a parità di produttività) dovrebbe essere considerato un vantaggio; il giudizio dipende invece dall'ipotesi, tutta "politica", che l'occupazione e la partecipazione al mercato del lavoro nazionale sono un obiettivo di politica economica, mentre non lo è quella di lavoratori stranieri, che non rientrebbero nella funzione del benessere sociale dei policy makers."

[5] Una definizione alternativa è quella basata sui vantaggi comparati nella produzione (Borjas 1991, p.448). Poniamo (seguo la sua esemplificazione) che vi sia immigrazione di lavoratori di bassa produttività, ma relativamente più efficienti ad esempio in agricoltura: essi verranno ivi impiegati liberando manodopera locale per i settori nei quali questa può venire maggiormente valorizzata; si avrà così un guadagno in termini di produttività (e quindi di retribuzione) per i lavoratori del paese di destinazione.

Un punto di vista, questo, che mi pare viziato da un certo ottimismo (almeno nel breve-medio termine), perché tende a trascurare i costi umani dell'aggiustamento, riconducibili alla limitata flessibilità del fattore produttivo lavoro; ciò vale a maggior ragione in un periodo di crisi, nel quale la forza lavoro locale eventualmente liberata rischia maggiormente di non trovare alcun impiego alternativo.

[6] "Nelle nuove condizioni sociali e culturali create dalla crisi economica che proprio in questi giorni (settembre 1992) mostra i suoi effetti più perversi, la situazione può evolvere verso diversi esiti. Se i lavoratori lombardi licenziati dalle industrie dovessero cominciare a trovare appetibili i posti di lavoro abbandonati negli anni scorsi, se i giovani trovando scarse opportunità di trovare lavori qualificati trovassero appetibili i lavori rifiutati negli anni scorsi, si potrebbe creare una situazione di grande competizione per il lavoro. In tal caso, nella incapacità di trovare una soluzione per i propri problemi si potrebbe imboccare la via della semplificazione, attribuire alla presenza degli immigrati la causa delle proprie difficoltà e adottare strategie negative e defezioniste verso di loro" (Cotesta 1995, p. 109).

[7] Cfr. Furcht 1994 per una trattazione più estesa.

[8] Quello che potrebbe chiamarsi "coraggio imprenditoriale" si tradurrebbe in questo caso in un'aperta irresponsabilità sociale (o peggio, quando si gode di sussidi dello Stato a favore dell'occupazione). Per le imprese non decisamente orientate all'esportazione, se considerate nel loro insieme (ché prese una per una potrebbe ancora convenire), si tratta inoltre di autolesionismo economico: così infatti si deprime la domanda interna.

[9] Possiamo basare la definizione di concorrenzialità tra prodotti sull'elasticità incrociata della domanda, che si definisce come:

, ovvero come il cambiamento percentuale di consumo del bene x provocato da un incremento percentuale unitario del bene y. Se questa elasticità è positiva, i beni sono succedanei; se è negativa, si dicono complementari.

La non-concorrenzialità cui si faceva cenno nel testo corrisponderebbe ad un'elasticità nulla, salvo appunto gli effetti causati dalla variazione del prezzo del bene y sul reddito reale del consumatore (la compensazione dell'effetto di reddito non è prevista nella definizione standard di elasticità incrociata).

[10] Questa almeno l'interpretazione più ortodossa, alla Todaro, ma non mancano modelli che teorizzino la preferenza per l'informale: si pensi a Cole e Sanders (citati a questo proposito in Venturini 1989, p.93), oppure a Fields. Si ritiene di solito che ciò si debba alla facilità di accesso (e quindi all'avversione al rischio insito nella ricerca di impiego); si è anche ipotizzata l'esistenza di un settore "informale superiore", caratterizzato da barriere all'entrata e da alti redditi.

Sono però concepibili altri motivi di preferenza per il settore informale, legati soprattutto alla sua flessibilità: necessaria ad esempio per i progetti migratori di gruppo che implichino una veloce rotazione - famiglie estese od anche altri gruppi (si pensi ai Murid senegalesi). Su questo si vedano Schmidt di Friedberg 1994 e i parr. 5.2 e 5.3 di Furcht e Maccheroni 1992.

[11] Con l'eccezione eventuale di quelli già dediti alla delinquenza: anche qui, bisognerà vedere se prevarrà l'incremento di concorrenza rispetto alle prospettive di mobilità verticale, e quanto conterà la disponibilità di manovalanza a basso costo per gli imprenditori e i quadri dirigenti del crimine organizzato. Fino a quando almeno, l'esperienza USA insegna, l'evoluzione del ciclo migratorio non dovesse portare ad un consolidamento di mafie etniche di provenienza straniera.

[12] Che oltretutto sono spesso le vittime preferite dalla malavita appartenente al medesimo gruppo etnico (per una discussione su questi punti, cfr. Furcht 1993, pp.227-8).



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