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Proveremo qui a svolgere qualche considerazione di carattere economico a proposito della propensione a delinquere. L'applicazione al caso delle migrazioni consiglia di ricorrere ad un impianto di tipo todariano, ma è evidente il debito verso l'approccio di Becker (ed Ehrlich)[1].
Probabilmente un'impostazione di questo genere è antitetica a quella abituale. Sono infatti due gli atteggiamenti - opposti ma speculari - più diffusi nel nostro paese: la filantropia ingenua (con alcune più smaliziate varianti demagogiche, magari in declino oggi perché meno paganti che in passato) ed il razzismo tetragono - una demagogia quest'ultima ben più truce e che rischia di incontrare un successo crescente. Ambedue tendono appunto ad interpretare la devianza in chiave esistenzial-valoriale o comunque psichica, facendo così velo alla razionalità di tipo economico che può essere sottesa ad una tale scelta. Non bisogna inoltre trascurare la possibilità che l'intenzione di agire nell'illegalità sia presente già prima della partenza.
Analizziamo dunque dal punto di vista costi-benefici la soluzione a due alternative successive:
a) si ha oggettivamente convenienza a delinquere piuttosto che agire legalmente, quando l'utilità attesa (e attualizzata) della prima attività è superiore a quella della seconda, detratti i costi[2]. Il reddito atteso da lavoro Wl può essere ricavato dalla somma dei salari futuri, ponderati per la probabilità di occupazione ed attualizzati (si dovrebbe fare un calcolo separato per ogni attività professionale; l'alternativa è considerare una media tra le varie occupazioni, ponderata con le probabilità di accesso).
Per fissare le idee, possiamo porre:
Vl
ove:
Vl = valore attualizzato dell'alternativa "lavoro";
Wl(t) = salario atteso al tempo t (il riferimento temporale verrà sottinteso d'ora in avanti);
Cl = costi connessi al lavoro[3];
pl = probabilità di essere occupati;
e-it = questo fattore rappresenta l'attualizzazione in base ad un "tasso di impazienza" i, e non è rilevante ai fini della nostra analisi.
Il discorso è un po' più complicato per la stima del valore del crimine. Prima facie possiamo trattarlo analogamente al lavoro, contando che tra i costi (da valutarsi in base al grado di avversione/propensione al rischio) vi sono la durezza della pena ponderata per la probabilità di trovarsi a scontarla, cui vanno aggiunti altri notevoli incerti inerenti la professione - in particolare il fatto che la concorrenza si eserciti secondo modalità estremamente darwiniane. In questo caso la natura aleatoria delle componenti negative e positive è ancora più spiccata che per il lavoro: in particolare diventano decisivi eventuali periodi di detenzione[4] (ammesso che questi comportino l'impossibilità di esercizio dell'attività); a dire il vero la stessa probabilità di morte - qui trascurata per semplicità - dovrebbe giocare un ruolo importante nel calcolo (nel caso del lavoro possiamo invece assumere quasi sempre un rischio trascurabile). Poniamo allora:
Vc ,
ove pc rappresenta i ricavi dell'attività criminosa e (1-
pc) la probabilità di
essere in carcere; i costi sono distinti tra quelli associati allo stato di
libertà e quelli associati all'associazione in carcere.
Anche a parità di reddito monetario atteso, è evidente che un ruolo importante è giocato dalla preferenza per il rischio; possiamo in realtà ipotizzare che il reddito atteso del crimine sia più alto, ma gravato da un'elevatissima dispersione (si pensi all'imponenza dei costi nei quali si può incorrere)[5].
b) l'attrattività dell'opzione "emigrazione" una volta effettuata la scelta a dipende dal peso attribuito ai seguenti fattori:
l'aumento dei proventi illeciti, probabile in un paese più ricco;
la variazione dei costi derivante dalla minor durezza delle pene e delle condizioni di detenzione nei paesi democratici, controbilanciata però da una presunta maggiore efficienza delle forze di polizia (una miglior organizzazione e disponibilità di mezzi dovrebbero superare l'handicap costituito da un più elevato standard di garanzie);
gli effetti derivanti dall'interazione con la malavita autoctona: maggiore o minore concorrenzialità rispetto al paese di provenienza, ovvero di possibili sinergie;
un rischio addizionale può comunque derivare dalle lacune nell'informazione, ipotizzabili maggiori che per a (possiamo anche aggiungere tutti i disagi dovuti al dover operare in un ambiente meno familiare).
Chi emigra senza intenzioni illecite ex-ante si ritrova nella situazione a una volta in terra straniera. E specialmente in periodi di difficoltà occupazionali la carenza di alternative può condurre molti ad abbracciare la carriera criminale in questo secondo stadio. Secondo il nostro schema, durante una crisi succede infatti che il valore atteso dell'alternativa "lavoro" diventi molto basso, in particolare a causa del repentino scendere della probabilità di occupazione, con la quale va ponderato il salario.
L'analisi qui svolta non esaurisce certamente la complessità del problema dell'illegalità, anzitutto nelle sue componenti sociali e culturali. Rende però possibile delineare i due poli delle strategie anticrimine. La prima è la risposta repressiva (catalogabile come della fermezza o piuttosto barbarica a secondo delle nostre inclinazioni di filosofia giuridica): essa corrisponde ad un innalzamento di Cc[6]. A questa si contrappone invece una strategia più evoluta, basata su un innalzamento dell'efficienza repressiva (ovvero una diminuzione di pc), quando non anche su misure più sofisticate che riescano ad abbassare pc..
Vediamo quindi quanto una situazione di crisi possa essere, anche da questo punto di vista, particolarmente pericolosa nella nostra situazione. In Italia coesistono infatti aspetti da paese avanzato che possono incoraggiare le attività delinquenziali (quali l'appetibilità del mercato e la relativa dolcezza di pene e procedure di repressione del crimine) con altri di inefficienza della giustizia e di spazio (e forse assuefazione da parte dei cittadini) per l'illegalità.