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§4 Culture[287]
Oggetto principale di questa sezione è una delle categorie-chiave della costruzione terzomondista (ma non solo di quella): parlo della "cultura" – meglio se al plurale – quale marcatore di identità collettiva. Questo ci porta ad occuparci di due atteggiamenti molto diffusi, sebbene apparentemente antitetici: l'accento sul "diritto all'identità culturale" e l'esaltazione della "società multiculturale", comunque inscrivibile nell'impostazione anti-neocolonialistica tratteggiata all'§1.4. In seguito arriveremo anche a quelli che mi paiono i moventi valoriali di posizioni quali l'aperturismo immigratorio e il terzomondismo, analizzati nei paragrafi precedenti.
§4.1 Individuo e identità culturale
Trattando di immigrazione ci si imbatte spesso nel concetto di "identità culturale": immancabilmente si sostiene la tesi che sia necessario difenderla strenuamente[288]; è questo, infatti, uno degli assunti centrali del politically correct[289]. A prima vista si tratta di una semplice difesa di diritti individuali. Si noti tuttavia come l'ossequio alle diverse "culture" sottovaluti in realtà la complessità di abitudini, tradizioni, ideologie – oltre che, ovviamente, attitudini personali – presenti in ogni gruppo umano; implica insomma un'etichettatura offensivamente semplificatrice anche nei confronti delle collettività che si vorrebbero tutelare (per un'argomentazione più estesa rimando a Furcht 1993).
Un'interpretazione dell'origine profonda di questo dogma prende le mosse dalla rapidità del cambiamento – tecnologico, sociale, economico – che negli ultimi decenni ha sconvolto consuetudini ed equilibri assai radicati. Negli anni ruggenti della contestazione si riteneva che la sinistra fosse la punta di lancia dell'innovazione dei costumi nei confronti di un passato oscurantista, del cui repressivo clericalismo l'Italia degli anni '60 era ancora impregnata. Nella stessa sinistra però, accanto a queste sensibilità di derivazione illuministica, esisteva un'anima più romantica[290]: quella, influenzata dal populismo cattolico (un nome: Pasolini), dell'opposizione alla modernizzazione, o almeno a certi suoi aspetti ritenuti deteriori[291]: si pensi alla lotta al consumismo, alla battaglia per i dialetti e le tradizioni popolari (finchè il ciclone Bossi non ha consigliato un rientro imbarazzato di ogni velleità in merito), oppure ai toni di certo ambientalismo sospeso tra luddismo e culto della Natura[292]; la deriva di parte dell'ondata sessantottina verso lidi indiani contemplativo-religiosi[293] rafforza l'ipotesi che dietro la volontà "rivoluzionaria" vi fosse spesso un personalissimo disagio esistenziale.
L'insistenza ossessiva sul concetto di "identità culturale" è ascrivibile alla potenza delle mode intellettuali: ma penso che possa leggersi appunto anche in chiave di opposizione romantica alla modernizzazione (vista anzitutto come allargamento della sfera di libertà individuale rispetto alla collettività, e razionalizzazione della realtà a spese di mito e magia[294]). Così facendo si ottiene l'effetto di subordinare la dignità delle scelte individuali a quelle collettive[295], conformemente alla discutibile dottrina dei "diritti dei popoli"[296]; sembra insomma che la libertà personale sia meritevole di maggiore tutela se il desiderio è quello di conformarsi alle tradizioni dei propri avi[297], in un momento oltretutto nel quale si profila uno scontro intergenerazionale (cfr. la nota 83 e il §3.3). Certo è che l'inviolabilità delle culture, che spesso si intende come incomparabilità (o uguaglianza di valore) tra di esse, ben poco ha a che vedere con l'uguaglianza tra gli individui[298]; riconoscere a tali "culture" ambiti di giurisdizione speciale in una democrazia occidentale porterebbe, come nota Mistri (2003, p.27) alla "dissoluzione dello stato di diritto", ai danni soprattutto di donne e minori appartenenti a gruppi caratterizzati da culture oppressive. Con le parole di Beccaria (XXVI Dello spirito di famiglia, pp.81-2): "Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche più illuminati, ed esercitate nelle repubbliche più libere, per aver considerato piuttosto la società come un'unione di famiglie che come un'unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l'associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l'associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo. Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini".
§4.2 Destra, cosmopolitismo e Islam
È sorprendente constatare la convergenza di tali posizioni con quelle di alcuni settori della destra[299], divisa in due versanti speculari a quelli della sinistra, uno filo-capitalista e l'altro romantico-nazionalista; mi soffermo sul secondo, che è spesso estremista (magari con venature esoteriche) e particolarmente avverso all'idea di progresso e cosmopolitismo (che trova un equivalente dispregiativo in "mondialismo"), in nome dell'attaccamento ad una tradizione più o meno mitizzata[300], schermo per il terrore del cambiamento[301] (cfr. anche nota 322). Sulle origini più remote di questi atteggiamenti vedi Fabei (per es. a p.70 un passaggio importante, che riprendo in nota 324, sul Volksgeist e le dottrine islamistica e nazista)[302].
La prima associazione – suggerita dal confluire di religiosità retrograda e opposizione alla modernizzazione – è quella col sanfedismo, ma vi è molto di più. Cingolani fa risalire l'emergere, in epoca repubblicana, di quest'anima agli anni Settanta: "I giovani di destra che sono scesi in piazza in occasione del processo per il "Rogo di Primavalle" [è il 1975] hanno subito il fascino e gli effetti del mutato clima sociale [post-sessantottino]: ancorchè provengano e si siano formati nelle sezioni missine, nel FUAN, e nei ranghi del Fronte della Gioventù, hanno cominciato a elaborare una nuova critica alla società contemporanea e rifiutano l'appiattimento sulle posizioni predominanti nel Msi; i neofascisti non criticano la democrazia nel nome della gerarchia, dell'ordine sociale o del diritto delle èlite, ma nella prospettiva della edificazione di un nuovo modello esistenziale; sul piano ideologico alcuni miti storicamente della sinistra, diventano patrimonio comune: il rifiuto di tutto ciò che è borghese, il mito della rivoluzione, l'attenzione verso l'ambiente e verso i problemi aperti dal processo di decolonizzazione, il rifiuto del mondo occidentale e delle superpotenze. Riguardo alla politica estera netto è l'appoggio a tutti i movimenti rivoluzionari nazionali, talvolta a prescindere dalla loro collocazione ideologica. Queste nuove suggestioni che investono la destra sono in gran parte frutto dell'elaborazione ideal-politica del gruppo che fa capo a Pino Rauti, che primo aveva fra l'altro sollevato la necessità di un rapporto con il mondo arabo, in contrasto con le posizioni accentuatamente filoisraeliane predominanti nel partito" (p.14; si veda anche p.116). Iraci Fedeli (1990, p.64) ricorda d'altronde che "il "Fronte della Gioventù", cioè i giovani fascisti, hanno solidarizzato con l'Intifada (di cui, evidentemente, comprendono meglio di altri la vera natura!) e che il rappresentante a Roma dell'Olp ne ha ricevuto una delegazione[303]. Si potrebbe citare il manifesto di una delle più deliranti sette nazifasciste, un non meglio precisato "movimento politico", in cui, con il segno di una specie di svastica, si proclama: "Tu, Israele, non vincerai", "Autodeterminazione per il popolo palestinese" sotto il ritratto di un ragazzetto in kifia"[304].
Siamo così arrivati al filo-islamismo di destra, con valenza anticapitalistica (e spesso antisemita – nel senso, naturalmente, di "antiebraica"[305]), oggetto dell'articolo di Brambilla[306]: "Veniamo ora agli ammiratori dell'Islam duri e puri. Ce ne sono a iosa nel mondo dell'estrema destra[307], e la cosa non deve stupire. L'Islam è sempre stato apprezzato dai fascisti (Mussolini volle farsi fotografare mentre impugnava la spada dell'Islam) e soprattutto dai nazisti [308]: è noto che Hitler disprezzava il cristianesimo, che considerava una religione per eunuchi, e ammirava l'induismo ("religione gerarchica") e appunto l'Islam, "religione guerriera". Dunque, veniamo all'estrema destra italiana di oggi. è una galassia di gruppi diversi, tra i quali uno solo è anti-islamico: Forza Nuova, il gruppo guidato da Roberto Fiore, e composto in gran parte da cattolici tradizionalisti. A parte loro, sono tradizionalmente filo-islamici il Fronte Nazionale di Adriano Tilgher, la Fiamma di Pino Rauti, il quotidiano Rinascita diretto da Ugo Gaudenzi e il periodico Orion diretto da Marco Battarra e Maurizio Murelli. "Non ci siamo convertiti all'Islam," ci dice Battarra, "ma con i musulmani abbiamo ottimi rapporti". Ammiratore dell'Islam è un'altra vecchia conoscenza della destra radicale, Franco Freda. Non a caso uno dei maître à penser dell'estrema destra, specie quella tradizionalista attratta dall'esoterismo, era il pensatore francese Renè Guenon, convertitosi all'Islam[309]". Nella cronaca di Fiorenza Sarzanini sulla relazione semestrale dei servizi segreti italiani (aprile 2001), si legge tra l'altro "Ambienti estremisti musulmani, che fanno capo al terrorista saudita Bin Laden, sarebbero in contatto con neofascisti convertiti all' islamismo"[310].
È del resto evidente l'analogia tra il "Noi amiamo la morte per causa di Allah, tanto quanto voi amate la vita" di Suleiman Abu Gheith, portavoce di Bin Laden (vedi gli articoli di Stella, Mo, Cardini 2001)[311] e la "religione della morte" dei fascismi negli anni '30-'40 (tedesco, spagnolo[312], romeno, e in parte anche italiano) analizzata da Furio Jesi. Un altro parallelo si può trovare tra la retorica pan-europea (e non solo) delle Waffen-SS dell'ultimo nazismo e quella pan-islamica degli sgherri di Al-Qaeda, anch'essi legione internazionale militarmente selezionata; l'ombra dell'Hitler degli ultimi giorni di guerra – sepolto nelle profondità del bunker berlinese, chiuso in folli speranze legate alle sue armi segrete, in preda a impulsi autodistruttivi nei confronti suoi e del suo popolo – getta un'ulteriore ombra sinistra sui bunker di Bagdad come l'aveva gettata sulle caverne afghane di Tora Bora.
§4.3 Il meticciato
Un altro tic frequente, stavolta solo da parte progressista (la destra è troppo immersa nella tradizione, se non nelle scempiaggini della purezza razziale o perlomeno identitaria), è quello del "meticciato", cui possiamo ricondurre gli slogan della "società multirazziale" (o "multietnica") e del conseguente "reciproco arricchimento"[313]; la storia in effetti abbonda di esempi della fecondità intellettuale dell'incrocio di popoli e culture – anche se a me pare siano decisamente più numerosi i casi di violenze e massacri (pensando a scontri anche recenti tra popoli contigui, come serbi e croati, o hutu e tutsi, per non parlare delle guerre civili, sembra difficile affermare che la conoscenza delle reciproche culture serva molto nel prevenire i conflitti).
La posizione di chi oggi nelle società occidentali propugna la commistione di culture va osservata con attenzione: la filosofia sottostante non è di norma quella di auspicare un imparziale sincretismo tra culture diverse; se piacciono zighni e falafel (mi associo con entusiasmo), hamburger e Coca-cola suscitano un disprezzo che va al di là della mediocrità del loro contributo nutrizionale. Non vi è insomma neutralità, bensì una precisa scelta di campo, che porta ad un curioso intreccio con l'esaltazione dell'"identità culturale" (che sposa invece la linea della purezza delle tradizioni[314]): questo lo si nota anche dal fatto che le due società probabilmente più "meticce" del mondo, gli Stati Uniti ed Israele[315], non sono tra le più amate da questi lirici fautori delle commistioni etniche[316]. Questo può spiegarsi in nome forse del "tutto fa brodo" pur di annacquare l'odiata cultura capitalistica[317]; detto più benevolmente, può trattarsi di una sorta di guerra al neocolonialismo (nella forma di egemonia culturale) portata in casa del nemico – ovvero in Occidente.
La nostra epoca è caratterizzata da un'evoluzione talmente rapida, che la saggezza del passato tende ad avere utilità sempre minore (si veda la nota 83). Eppure gli sviluppi culturali che vengono auspicati sono di norma quelli di incroci con altre tradizioni, cui si contrappone "da destra" l'accanita difesa di quelle locali: ritroviamo qui un tratto comune con il conservatorismo della "difesa dell'identità culturale". In questa sorta di guerra di religione molti trascurano di promuovere la libertà di ricerca e innovazione, tecnologica o anche sociale, queste sì fonte di effettivo arricchimento; questo atteggiamento può essere aggravato dal fatto che la cultura dominante in Italia sia quella umanistica, nella sua accezione più angusta[318], mentre quella scientifica, poco coltivata[319], ispira diffidenza alla maggior parte dei nostri concittadini[320] – anche per l'atteggiamento della maggior parte dei media (vedi Mori 2003[321]). Ma la radice di questo conservatorismo è un'altra, la paura; ce lo ricorda con grande chiarezza Mazzoleni, con riferimento planetario: "Seattle e le sue imitazioni-ripetizioni (a Genova, Nizza, Davos, Napoli, Goteborg, ovunque si riuniscano i cosiddetti Grandi del mondo) esprimono il protezionismo contemporaneo. La libertà di mercato significa rinuncia alle garanzie statali, diventa paura del futuro, si traduce in paura della scienza, delle sue oscure creazioni e manipolazioni, del "cibo di Frankenstein"[322], della globalizzazione, delle multinazionali, di quei poteri economici senza volto che appartengono a tutti e nessuno poichè i loro azionisti – attraverso fondi comuni, fondi pensione, gestori di patrimoni – sono milioni, pensionati, ceto medio, risparmiatori, sparsi nel mondo. è il timore ancestrale dell'ignoto intuito da Mary Shelley. Questo Frankenstein è anche un alibi del protezionismo e i governi preferiscono lisciarlo per il verso del pelo, perchè l'ira degli agricoltori è proverbiale, lo si è visto in Francia infinite volte e in Italia nel caso delle quote latte." (Sartori e Mazzoleni, pp.206-7) [323].
Una delle molle principali dell'opposizione culturale al "sistema"[324], e che sicuramente muove i fautori del meticciato, è l'amore per l'esotismo[325], spesso dettato da motivazioni esistenziali od estetizzanti[326].
Si tratta indubbiamente di questione di legittimi gusti personali; se però dovessi dichiarare i miei, influenzato anche da un'innata – ancorchè insufficientemente appagata – inclinazione alla pigrizia, farei mie le parole di un tanto grande quanto simpatico poeta emiliano:
E più mi piace di posar le poltre
membra, che di vantarle alli Sciti
sien state, agli Indi, alli Etiopi et oltre.
Degli uomini son varii gli appetiti:
a chi piace la chierca, a chi la spada,
a chi la patria, a chi gli strani liti.[327]
§4.4 Gli immigrati: diavoli o angeli?
Non è difficile formulare delle ipotesi sul clima di ostilità verso l'immigrazione (specialmente se da determinate provenienze, e ancor più se clandestina): pregiudizio di razza o di classe, angoscia dovuta all'incertezza del futuro e sfogata col perverso meccanismo del capro espiatorio, timore della criminalità (cui si aggiunge la gravissima minaccia del terrorismo), esasperato dalla sensazione di inadeguatezza che le politiche di contrasto ispirano. Il quadro della disperazione nei paesi poveri, dipinto a volte per esortare ad una maggior apertura verso l'immigrazione, induce piuttosto il comprensibile timore di un inasprimento delle tensioni nelle nostre società – in particolare in mancanza di rigorose politiche di gestione del fenomeno. In questo contesto penso possano iscriversi anche le preoccupazioni sanitarie nei confronti degli immigrati, a volte una sorta di somatizzazione del rifiuto[328].
In chi si occupa di politica, volontariato[329] o scienze sociali è invece facile si ritrovi una disposizione d'animo opposta, e non meno aprioristica. Il benessere crescente, il ridimensionamento (e contestuale avanzamento economico) della classe operaia hanno lasciato molti cavalieri senza oppressi da difendere; si presenta per essi l'occasione per reclutarne di nuovi: l'immigrato dai PVS, e più in generale il terzomondiale, può essere visto come il "nuovo povero"[330], capace di riscattare la nostra società vecchia e corrotta – si ricordino il "grassa" e il "sazia" di Terzani, citato nell'§1.4[331] – e di redimerne il cinismo[332] con il proprio spirito rivoluzionario (o religioso). Questo fa anche sorgere legittimi dubbi sulla natura di alcune solidarietà: "aiutare i poveri" significa secondo logica lottare contro la miseria per estirparla e, idealmente, ottenere un mondo costituito di soli ricchi; ma potrebbe rivelarsi anche un'adesione al modello morale da essi (involontariamente) proposto. La povertà, se così fosse, diverrebbe categoria benefica[333], necessaria all'umanità in quanto del modello da imitare[334] – se non anche in quanto fonte di un senso di colpa psicologicamente ricercato; questo sistema valoriale[335], anche non del tutto conscio, potrebbe spiegare prese di posizione come quella rimproverata da Iraci Fedeli ai terzomondisti (nota 55) od il rifiuto della "canna da pesca" propugnato dal gruppo Abele (nota 60), coerentemente non tanto con il comunismo, quanto con molte tradizioni pauperiste anche religiose[336].
Tutto questo si basa però su un macroscopico fraintendimento delle intenzioni della maggior parte dei migranti. Chi viene qui aderisce spesso agli ideali più tipici – non sempre edificanti – delle società avanzate, filtrati oltretutto da racconti di conoscenti o dai mezzi di comunicazione: libertà, lavoro, carriera, guadagno, consumi. Oltre che terzomondizzare i paesi ricchi, l'immigrazione sta diffondendo il capitalismo nei popoli che finora ne sono restati al margine.
I fraintendimenti, come i paradossi (ne incontreremo altri in Appendice 2) derivano spesso dalla mancanza di chiarezza concettuale. è mia opinione che, in molte delle questioni che abbiamo esaminato, si sia trattato di una cecità ideologicamente motivata, aggravata nei casi peggiori dall'effetto di trascinamento delle mode intellettuali, tra le quali gioca un ruolo fondamentale il politically correct. Un approccio poco critico aiuta anche a non incrinare le certezze, che esse riguardino la necessità difendere l'identità culturale o quella di combattere il terrorismo alle "radici" (ovvero eliminando la povertà), o il fatto che le immigrazioni siano ineluttabili e rappresentino un arricchimento, o che l'Occidente sia colpevole della povertà del Terzo Mondo e la scienza responsabile dell'alienazione dei rapporti umani – per non parlare poi della presunzione di essere campioni dell'antirazzismo, quando l'ombra dell'antisemitismo si allunga su settori della sinistra (e non solo quella naturalmente)[337].
Alla nebulosità dei concetti[338] corrisponde di norma quella d'espressione[339], provvidenziale puntello quando la logica non è stringente[340]. Non posso certo scagliare la prima pietra (già mi chiedo se il lettore sia riuscito ad arrivare fin qui). Posso però lasciare lo faccia in mia vece Ricossa, che sparge vetriolo con soavità tale da potersi concedere di mettere il dito nella piaga; così infatti si rivolge ad un immaginario collega accademico: "Però, se il mio stile è troppo alla buona, e forse espone le mie pagine a facili derisioni, il tuo al confronto mi pare più impegnativo delle pagine più impegnative della "Settimana Enigmistica", ma meno divertente. Sei chiarissimo in quanto illustre, oscurissimo in quanto espositore. Quel che hai chiesto a me lo chiedo a te: per chi scrivi? Per altri intellettuali simili, non per il popolo col quale ti vanti di solidarizzare. Sei su un piano inclinato e insaponato, che se non stai attento porta alla fatale riflessione: "Perchè accontentarsi di essere difficile quando, con un piccolo sforzo, si può diventare incomprensibile?" E per molti, fra cui giudici di concorsi pubblici, ma non per me, l'incomprensibilità è a un passo dall'infallibilità. Quasi sempre è intesa o accettata come profondità di pensiero, perchè scarseggia il coraggio di dire: "Non capisco, spiegati meglio""[341] (p.68).
Perchè il linguaggio oscuro dovrebbe venire così largamente apprezzato? Un suggerimento ci viene da Jesi che maramaldeggia su Liala (meglio, sul suo pubblico): "Ma l'imitazione del linguaggio dello scrittore da parte dei lettori è in generale la prova dell'esatto contrario di quanto si vuol dimostrare per Liala [cioè che sia comprensibile da tutti]. Il lettore adotta vocabolario e stile dello scrittore poichè vi trova qualcosa che non possedeva ancora, che in fondo non capisce e che crede di capire proprio perchè quel qualcosa di non comprensibile è, in quanto tale, efficace (…). Capire un linguaggio diviene così apprezzare (fino ad adottarlo) un linguaggio che si dimostra efficace in quanto non è oggetto di comprensione" (p.110). Ma questo giudizio – pur contenendo spunti senz'altro utili anche nel nostro caso – è applicabile solo in parte, perchè formulato in tutt'altro contesto. Volendo dare una mano a Ricossa – che non pare peraltro averne bisogno – meglio piuttosto continuare a saccheggiare le opere di grandi poeti del passato, rispolverando il sempre attuale giudizio dato da Lucrezio sugli eraclitei (sulle scuole di pensiero più moderne non poteva esprimersi):
Heraclitus (...)
clarus ob obscuram linguam magis inter inanis
quamde gravis inter Graios qui vera requirunt,
omnia enim stolidi magis admirantur amantque,
inversis quae sub verbis latitantia cernunt,
veraque constituunt quae belle tangere possunt
auris et lepido quae sunt fucata sonore.[342]
[287] Su tutti questi temi si veda Furcht 1993.
[288] Si prenda come esempio il resoconto delle dichiarazioni di Lorenzo Ornaghi, economista dell'Università Cattolica: "La sicurezza (…) si tutela coniugandola con lo sviluppo e la salvaguardia dell'identità dei popoli" (Politi 2001). Cfr. anche Martelli, p.61, e il passo del Dossier Caritas riportato in nota 313.
[289] La canonizzazione dell'"identità culturale" si associa spesso al multiculturalismo antipluralistico, le cui origini intellettuali (marxismo dapprima inglese e poi americano) sono ricostruite in chiave critica da Sartori 2000a, pp.57 e seguenti, che vede in questo atteggiamento – contro il quale si scaglia anche Huntington, pp.455 e segg. – un grave pericolo per la vita civile, fino ad arrivare alla "servitù dell'etnia" (p.92). Su posizioni simili Paolo Macry: "Piaccia o meno, il tema del rapporto fra culture - e con questo s'intende un campo di forze che oggi comprende cristianesimo, islam ed ebraismo – è diventato il cuore non soltanto della politica internazionale ma delle stesse ansie quotidiane degli europei. Fino a un paio di decenni orsono, simili questioni tenevano banco negli Stati Uniti, incendiando i liberal dell'Est Coast, la borghesia nera, gli omosessuali, le donne e magari qualche accademico in cerca di una cattedra alla Columbia. A quei tempi, settentrionali o mediterranei, sarebbe stato difficile negare il valore innovativo di un percorso intellettuale che, da Nathan Glazer a Edward Said, rivendicava le identità specifiche delle minoranze. In seguito, tuttavia, sono apparsi con chiarezza anche gli effetti collaterali della lezione multiculturalista, il proliferare dei confini, la spaccatura delle nazioni, la legittimazione di comunitarismi feroci. E l'etnicità s'è mischiata alla politica dei gruppi senza Stato, come i musulmani kosovari, o delle grandi potenze, come la Russia del genocidio ceceno. Fino a richiamare le insidiose teorie della Kulturnation. Sicchè, se un quarto di secolo fa eravamo tutti relativisti, oggi sono numerosi coloro che avvertono piuttosto il vuoto lasciato da un'identitè europea storicamente superba, aggressiva, arrogante e ormai nevrotica, paranoide, psicologicamente abulica. E certo non risolverà simili umori, anzi rischia di prepararne una deriva xenofoba, l'ingenua uscita di sicurezza del multiculturalismo applicato al calendario scolastico" (2004a; l'occasione è la proposta di Adriana Beffardi, assessore all'istruzione della regione Campania, di poter interrompere le lezioni in occasione del Capodanno cinese e del Ramadan, sulla quale vedi anche Macry 2004b).
Il separatismo multiculturalista si sta profilando minaccioso anche sull'avvenire del nostro paese: si noti, restando nell'ambito dell'istruzione, come l'appoggio finanziario alle scuole private potrà aprire spazi per confessionalismi anche estremisti e violenti (penso ad una parte dell'islamismo, che potrà godere di spazi didattici difficilmente controllabili). Concepito come un sostegno per la presenza cattolica nella nostra società, tale appoggio facilmente si ritorcerà quale paradossale boomerang su chi l'ha ideato.
Va però segnalato un provvidenziale inizio di retromarcia, grazie a Blair (anche prima degli attentati di Londra del luglio 2005), di uno dei paesi capofila di questo approccio al problema della convivenza tra individui di diversa origine. Sempre nella primavera 2004 molti paesi europei vanno verso l'inasprimento della legislazione o della prassi verso le componenti islamiche, se non addirittura verso gli stranieri in generale (cfr. l'editoriale I pacifisti di Lepanto, apparso su il Foglio del 6 maggio 2004, e Offeddu 2004); il caso olandese è richiamato in nota 228. Su questo ritorno, con Allam (2004g) in Appendice 1; segnalo anche Riotta (2005f).
[290] Si pensi al concetto di Volksgeist (che fu tra l'altro un tramite tra Islam e nazismo – cfr. n.324).
[291] Quali l'eccessivo consumismo ispirato ad un capitalismo grossolano – noi italiani avevamo del resto appena attraversato la fase dell'entusiasmo iniziale verso i modelli d'oltreoceano (si pensi ad esempio all'Alberto Sordi di Un americano a Roma, o Tu vuo' fa' l'americano di Carosone – la cui gloria è stata rinverdita dal successo della parodia antibinladiana scaricabile dalla pagina http://www.my-tv.it/showbiz/ginosworld/ginoflash.php?IdArt=2164).
[292] Si veda su questo Furcht 1999b, in particolare il §2.3 e l'Appendice.
[293] Ove per "religione" si intenda direttamente "setta", cfr. I come India, incluso in bibliografia
[294] Un tema esplicitamente presente, con esiti struggenti, anche in autori di sensibilità sociale e politica assai diversa, quali Dino Buzzati – si pensi per esempio a Il babau.
[295] Jesi rileva che "è razzismo ogni dottrina secondo la quale gli uomini di un gruppo nascono portatori di una data cultura e soggetti a un dato destino" (p.17).
[296] È evidente l'analogia con la posizione olistica individuata da Popper, che così ne espone uno dei principali presupposti (p.30): "... i gruppi sociali non devono mai essere considerati come mere riunioni di persone. Il gruppo sociale è qualcosa di più della semplice somma complessiva dei suoi membri, ed è anche qualcosa di più della semplice somma complessiva delle relazioni puramente personali esistenti tra i singoli membri in un qualsiasi momento determinato" – per poi confutarne la logica (e metterne in rilevo "banalità" e "vaghezza", cfr. pp.76-82). Forse più appropriato al nostro tema, però, il suo richiamo (estremamente critico, ovviamente) al "punto di vista popolare che gli enti sociali, some le istituzioni o le associazioni, siano enti naturali concreti come le folle di uomini, piuttosto che modelli astratti costruiti per interpretare certi rapporti astratti scelti tra individui" (p.125). Il nocciolo della questione sta nell'essenzialismo, esposto da Popper nel par.10 e definito "un genere di errore comunissimo" a p.122 ("ci illudiamo che i nostri modelli teorici siano delle "cose"").
[297] In Terzani 1994 – ma si veda anche il 2001b – troviamo un passo rivelatore della confusione tra benessere personale e difesa della cultura del passato: "Uno degli ultimi angoli di indomata natura è stato dato in pasto alla logica del profitto. (…) Chi ha tutto da perdere sono gli abitanti di questa zona di passo che non hanno modo di proteggere la loro identità, il loro modo di vivere, la loro cultura"; cfr. anche Balducci in nota 330. In questo genere di argomentazioni le culture vengano semplicisticamente ridotte ad entità sostanzialmente monolitiche, oggetto di ammirazione per gli osservatori esterni e da conservarsi quindi intatte nei secoli a prescindere dalla loro utilità per gli individui (su questo, in nota 69 un accenno di Kohlhammer); spesso si cade inoltre nell'errore di considerare l'uguaglianza tra le culture eticamente rilevante quanto quella tra gli individui (un caso dell'"errore olistico" individuato da Popper) – sulla pretestuosità di questo relativismo culturale vedi quanto annota Panebianco (riportato in nota 69), l'orgogliosa rivendicazione di superiorità della nostra cultura di De Marchi (I metodi per sconfiggere il fanatismo e il terrorismo islamico, 2002 e Il problema immigratorio italiano e europeo, 2003). Si noti comunque che istanze identitarie vengono comunque espresse anche da autori sicuramente non antiliberali (e dai quali quindi si può garbatamente dissentire): si veda Galli Della Loggia (2003b e 2003d), che nel secondo intervento scrive: "Ma se la democrazia è definita solo dall'individualismo e dalla incorporazione della modernità tecnologica, è difficile immaginare come essa possa alla lunga conciliarsi con le due dimensioni che sono proprie di ogni cultura: la dimensione collettiva e quella del passato. Un Parlamento intenzionato a mettere ai voti i dieci comandamenti non è davvero il culmine ideale di una società libera ". Cfr. anche Khaled Fouad Allam; per un ulteriore approfondimento rimando a Furcht 1993, pp.229-30.
[298] È questa l'occasione per un rimando più gradevole di quello bibliografico: il film East is East (GB 1999).
[299] "In parte, l'origine del terzomondismo ci aiuta a capirne anche il successo. L'origine dell'idea terzomondista va ricondotta a due eventi che contribuiscono a plasmare il nostro secolo. In primo luogo, l'avvento del fascismo. I terzomondismi occidentali (ma anche quelli di Lagos, di Bogotà o di Bombay) sarebbero certo molto sorpresi se scoprissero che molto del loro armamentario ideologico (l'opposizione fra demoplutocrazie e nazioni proletarie è il succo del "pensiero" terzomondista) si deve a quel grande comunicatore, grande inventore di slogan di successo, che risponde al nome di Benito Mussolini" (Panebianco 1989); un antesignano, il nazionalista Enrico Corradini , è individuato da Pera (2002).
[300] Tale attaccamento è associato ad un marcato antiamericanismo (presente anche in molti degli articoli di M.Fini raccolti in Il conformista, già citato in Bibliografia): su questo atteggiamento si diffondono criticamente Pera e Teodori (cfr. nota 322), vedi anche Mieli 2003b.
Per la variante transalpina, ancora più diffusa di quella italiana, si legga Gualco, che recensisce Revel, e soprattutto Ostenc. Quest'ultimo scrive: "Da questo scenario [aveva poi tratta della cultura francese dell'Ottocento] emerse la tipologia dell'odioso "yankee": immaturo e filisteo, volgare e avido, conquistatore e puritano. A questo stereotipo si aggiunse la spinosa questione della mondializzazione, concepita come una minaccia per l'originalità francese e come una richiesta di allineamento sul modello americano" (p.116). Altri motivi si mescolano al puro timore del mutamento: "I Francesi si ritengono culturalmente superiori agli altri popoli e l'abbassamento del loro paese al livello di una potenza media contribuisce, paradossalmente, a rafforzare questa convinzione". Su questo anche Novak: "Per quanto riguarda la Francia, poi, c'è anche una chiara invidia ideologica: un feroce orgoglio per la propria visione del mondo e per la superiorità della propria civiltà, cui si aggiunge un tradizionale snobismo nei confronti della cultura americana (e di molte altre)". Nava apre il suo articolo sull'antiamericanismo dei libri di scuola francesi con due citazioni da Flaubert: "Il popolo francese è il più grande dell'universo" e "Senza la scoperta dell'America non avremmo la sifilide" (2005c); per combinazione, nello stesso numero del Corriere Coppola ci ragguaglia sull'anti-bushismo di Asterix (Quando il cielo gli cade sulla testa): "Albert Uderzo (…)ha schierato senza troppe metafore il piccolo eroe dell'orgoglio francese contro il "colonialismo culturale", effetto collaterale della globalizzazione ". Vedi anche l'accenno in Nava 2005e.
[301] In una declinazione non lontana da alcune sensibilità pasoliniane cui si accennava nell'§1.4 troviamo un pensatore spesso classificato "di destra" come Massimo Fini (dalla conferenza-dibattito dell'ottobre 2004). In lui troviamo l'idea che una sorta di cricca di potenti alieni l'umanità, la paura della rincorsa continua all'innovazione anche sociale, la conseguente nostalgia per un'età dell'oro preindustriale mitizzata, il rifiuto di un presente fatto di alienazione e bisogni indotti, la sacralizzazione delle culture (possibilmente arcaiche).
[302] Si noti che è questa, a parere di Nolte, la chiave per interpretare le motivazioni profonde di Hitler (e, aggiungo, di molti suoi seguaci).
[303] Mi spiego alla luce di questi antecedenti la solidarietà che il presidente della regione Lazio ed esponente della "destra sociale" di AN, Storace, ha espresso nei confronti dell'Autorità palestinese in occasione della reazione israeliana alle stragi terroristiche di Gerusalemme e Haifa del dicembre 2001; lo stesso dicasi dell'atteggiamento di Gianni Alemanno, assai diverso da altri esponenti di AN, in occasione della morte di Arafat (cfr. s.a., il Sole-24 ore, 12 novembre 2004b).
[304] Non va meglio oltr'Alpe (si veda l'articolo di R. Glucksmann): "… negli anni Ottanta il Gud [organizzazione neonazista francese] ha scoperto un nuovo demone: "L'imperialismo americano e la sua espressione più terribile, lo stato d'Israele". I militanti del Gud hanno moltiplicato le violenze contro gli studenti ebrei. "A Parigi come a Gaza, Intifada" è diventato lo slogan principale del Gud. Un capo del movimento, Benoit Fleury, dichiarava nel 1998: "In Francia come in Palestina, abbiamo lo stesso nemico: l'occupazione sionista. L'antisemitismo deve essere forte ovunque gli ebrei sono presenti". Il simbolo del Gud è un ratto nero ornato da una keffiah. Questa evoluzione conduce a strani avvicinamenti. I Gudards si ricollegano sia a Leon Degrelle (…) che al terrorista Carlos e allo stesso Mussolini; sia a Saddam Hussein che al gruppo anarchico "Action Directe"". Sulla Germania cito dal contributo di Lochte, ancora degli anni Ottanta: "Il terzo tipo di organizzazione terroristica è il gruppo neonazista Hepp-Hexel. è, stranamente, il primo gruppo di estrema destra a esprimere un'ideologia di ‘liberazione dall'imperialismo'. (…) Per liberare la Germania Federale da questa forma di oppressione è necessario attentare alle infrastrutture americane. Poco dopo la sua formazione il gruppo Hepp-Hexel entrò nella clandestinità, finanziandosi attraverso rapine alle banche. Il 14 e 15 dicembre del 1982 fece saltare in aria a Hesse tre auto di soldati americani, ferendone seriamente due. (…) Il loro obiettivo era di terrorizzare, come avvenne quando posero le bombe all'Oktoberfest di Monaco nel settembre del 1980, uccidendo tredici persone e ferendone altre duecentoquindici. (…) Probabilmente esso è responsabile anche di attentati contro bersagli israeliani, da quando, soprattutto, il gruppo ha accolto nelle sue file militanti addestrati da Al Fatah in Libano e individui di ideologia ‘nazional-bolscevica'".
[305] Questo "naturalmente" corrisponde alle intenzioni dei depositari dell'interpretazione autentica del termine, i nazisti. Cito da Fabei, p.226: "Nel 1942 il Reich, attraverso radio Atene, diffuse una dichiarazione tanto importante quanto necessaria perchè destinata a chiarire la confusione generata dal termine "antisemitismo". Di tale confusione, infatti, approfittava la propaganda araba degli Alleati, giacchè gli arabi erano "semiti" così come gli ebrei. Grobba esercitò la sua influenza affinchè fosse eliminata questa confusione e si avvalse dell'aiuto del professor Gross, capo dell'ufficio del Rassenpolitisches Amt, ovvero dell'ufficio di politica razziale di Berlino. Con l'approvazione di Alfred Rosenberg fu emanata la dichiarazione ufficiale in cui si affermava che la Germania considerava gli arabi una razza particolarmente valida, non inferiore a quella tedesca".
[306] Brambilla menziona anche – su tutt'altro piano, naturalmente – i casi del giornalista Pietrangelo Buttafuoco, "considerato un "intellettuale di destra"" e di Massimo Fini, tra quelli – molti all'epoca, a dir la verità (anche nella destra più estrema, cfr. Cingolani p.78, nota 28) – che guardarono con favore all'ascesa del regime khomeinista in Iran: ""Andai pure là", ci dice, "e non ho difficoltà ad ammettere che in un sistema del genere non vivrei neppure un giorno. Però quella rivoluzione fu un tentativo interessante per cercare la famosa "terza via", e io la difesi perchè credo che ciascun popolo abbia il diritto di farsi la propria storia". E questo è il motivo per cui Massimo Fini, adesso, non sta affatto dalla parte dell'America: "Cerca sempre di imporre il proprio modello, esportandolo in Paesi che hanno storia e tradizioni diverse. Io credo che gli islamici, talebani compresi, a casa loro hanno il diritto di fare ciò che vogliono. Pretendere che tutto il mondo adotti lo stesso stile di vita è assurdo. Lo è in linea di principio, lo è ancora di più adesso che il modello occidentale fa acqua da tutte le parti". Non solo: secondo Fini il fondamentalismo, e anche il terrorismo, sono "una conseguenza dell'aggressione occidentale"". Personalmente posso aggiungere d'aver sentito toni simili in un'intervista di Massimo Fini rilasciata nel pomeriggio del 17 settembre 2001, nella quale si evocava la possibilità di un conflitto di portata gigantesca che –aggiungeva con una certa soddisfazione – l'Occidente avrebbe benissimo potuto perdere; altri accenni all'Iran, con minore linearità, ne Il conformista.
[307] Si vedano ad esempio gli articoli di Offeddu sui nazisti americani, sui quale scrive anche Malagutti – e ai quali andrebbero affiancati i musulmani razzisti di Farrakan, sui quali si sofferma Fallaci 2004, che a pp.124-5 ne riporta una dichiarazione: "L'inferiorità della razza bianca e della religione cristiana è dimostrata dal fatto che, incominciando dalle scoperte scientifiche, tutte le conquiste dell'umanità sono merito dell'Islam. L'unico bianco degno di rispetto è il mio idolo Adolf Hitler che ha eliminato tanti ebrei" (la deferenza mostrata dai liberal americani verso Al Sharpton è invece oggetto di qualche commento di Peretz).
Su quelli di casa nostra cfr. invece Malagutti-Olimpio e di Biondani (cfr. anche Vittorio Monti sui convertiti italiani e Mieli 2003c). Roni Stauber, intervistato da L.Cremonesi (2002), nota che "il nuovo antisemitismo italiano ha alcune caratteristiche specifiche. In primo luogo esistono strette affinità ideologiche tra estrema destra e Islam fondamentalista: la destra italiana condivide l'odio antiamericano, antiglobal e antiebraico dei gruppuscoli musulmani più arrabbiati". Sasinini inoltre ricorda che "Non è la prima volta che nel nome del terrore sono nate impensabili trasversalità, che sono riuscite a conciliare formazioni nazionaliste-indipendentiste con gruppi di ispirazione marxista-leninista, così come non è una novità che elementi neonazisti si siano convertiti all'Islam e si siano alleati con organizzazioni terroristiche arabe, avendo per comune denominatore l'antisemitismo e l'odio verso Israele". Sulla convergenza tra islamismo e nazismo, specie sul piano dell'antisemitismo, cfr. anche Romero 2004. Vedi anche nota 307. Si ricordi inoltre la posizione negazionista riaffermata eclatantemente dal presidente iraniano Ahmadinejad tra 2005 e 2006.
[308] Generosamente ricambiati, d'altronde, da diversi regimi dittatoriali arabi ("evoluzione afro-asiatica di una concezione dello stato di tipo totalitario-fascista", Panella 2002 p.123) che ne ospitarono i gerarchi nel dopoguerra (si pensi al caso di Alois Brunner in Siria, cfr. l'articolo del Resto del Carlino, senza autore; o a quello di Walther Rauff, colonnello delle SS, "il tedesco più temuto a Milano", cfr. Caretto 2005c) anche utilizzandoli come consiglieri per i servizi segreti (cfr. Panella 2003a). In questo si distinse il panarabismo di Nasser e ancor maggiormente quello del partito Baath, la cui matrice è benevolmente interpretata come "laica" o "socialista", mentre il paragone più corretto anche storicamente è quello con il nazionalsocialismo tedesco: cfr. soprattutto Panella 2003a (vedi anche 2002, p.127); in questo senso anche Fini, pp.225 e 228 e Berman, anche nell'intervista di Carioti. Christopher Hitchens, cui si deve il termine "islamo-fascismo", intervistato da Rocca per la7 mette in relazione i legami tra queste dottrine fanatiche per principio, chine a scrutare un mitico quanto lontano passato di gloria, pervase di violenza, intrise di soggezione ad un leader forte e pervase dalla mistica della morte.
Allam scrive, in un articolo dedicato la cacciata degli ebrei dai paesi arabi nella seconda metà del XX secolo, ricordando i testi scolastici in Egitto sul tema "l'identità araba": "un approccio ispirato alla dottrina della purezza e della supremazia razziale dei nazisti e dei fascisti, con cui simpatizzavano i leader e gli ideologi del panarabismo e del panislamismo. Va da sè che in questo contesto manicheo Israele è percepita come un corpo estraneo da rigettare, un cancro prodotto dall'imperialismo americano per dividere e sottomettere il mondo arabo" (2004h).
Proprio il Baath rappresenta una sorta di metafora dell'atteggiamento di buona parte del mondo arabo, passato nel XX secolo dal filo-hitlerismo al radicalismo rivoluzionario di sinistra (come scrive Berman in Carioti 2004: "Il mondo musulmano è stato sommerso dalle teorie filosofiche tedesche del passato: le teorie del nazionalismo e del totalitarismo rivoluzionari abilmente tradotte nei dialetti musulmani"; per quanto riguarda la declinazione sciita, ribadisce l'iraniana (non araba, quindi) Nafisi: "il fondamentalismo predicato da Khomeini si fondava tanto sulla religione quanto su comunismo e fascismo, ideologie nate in Occidente"), per poi approdare al fondamentalismo religioso, sempre nel nome del nazionalismo violento, perlopiù in accezione pan-islamica. Nel senso della similarità strutturale tra ideologie totalitarie del ‘900 e radicalismo islamico si pronunciano Pipes e Ottolenghi nel dibattito televisivo del 29 ottobre 2003 (vedi anche Rampoldi 2004, citato in Appendice 1 e Riotta 2004b), e Debenedetti; particolarmente importante l'opinione di Allam (cfr. ad es. 2006a). Berman, nell'intervista a Carioti chiama "alle armi nella guerra contro l'estrenismo islamico. L'autore [si parla del libro Terrore e liberalismo] non ama Bush [al pari di Dershowitz, cfr. nota 238, e di Walzer, che ha simili posizioni; cfr. Caretto 2004a e 2005b] e disapprova molte delle sue scelte, ma condivide il senso generale dell'impegno intrapreso dalla Casa Bianca perestirpare le radici del fanatismo in Medio Oriente. Quindi prende a metaforici ceffoni tutta l'intellighenzia progressista, da Josè Saramago a Noam Chomsky, che hanno fiato solo per condannare l'imperialismo americano, senza capire che lo scontro in atto è la prosecuzione della lotta contro Hitler e Stalin". In questo senso Berman, ripreso in un esplicito articolo da Battista (2005a), definisce secondo logica "fascisti" i cosiddetti "resistenti islamici" (ci voleva la commovente immagine di un popolo finalmente felice di potersi esprimere col voto per seminare qualche dubbio in chi tale "resistenza" appoggiava). Una figura esemplare è quella del Muftì di Gerusalemme: in aggiunta ai testi appena ricordati, in Internet è disponibile anche un'interessante ricostruzione, a firma Bergsson (cfr. Bibl.), dei suoi rapporti con la Germania nazista. Un accenno ai rapporti fascismo-Islam anche in Iraci Fedeli 1990, p.92 – si veda infine l'articolo di Romano (2001).
Del resto già durante la guerra le simpatie per i nazisti erano notoriamente state vivissime in tutto il mondo islamico ed arabo in particolare: si vedano Panella 2002 (pp.105-12), Panella 2003a, Romano 2004b, l'intervista a Friedrich Marks e soprattutto il testo di Stefano Fabei (che dice qualcosa anche sulla corrente di ammirazione in senso inverso – cfr. nota 324), minuzioso e pregevole (in bibliografia anche una sua intervista rilasciata a Fasanotto). Un testo, quello di Fabei, peraltro non certo affetto da pregiudizio anti-islamistico: è anzi improntato ad un'inusuale benevolenza anche verso l'Asse.
All'affezione del passato fa riscontro una popolarità almeno altrettanto radicata nell'opinione pubblica odierna nei paesi arabi. Scrive Dershowitz (p.246): "In base ad un servizio della Fox News, a cura di Brit Hume, in data 19 marzo 2002, la traduzione araba di Mein Kampf, sulla cui copertina campeggiano una svastica ed una foto di Hitler, figura tra i più importanti bestseller (al sesto o settimo posto, secondo una recente classifica) nelle aree controllate dall'Autorità palestinese" (cfr. anche nota 193); si tenga oltretutto conto che in Medio oriente, al di fuori di Israele, ben difficilmente si stampa qualcosa che non sia approvato dalle autorità (la vendita dei libri di Edward Said, noto intellettuale palestinese ardentemente anti-israeliano, ad esempio era stati proibita da Arafat; cfr. anche Ferrari 2005a). Del resto, in evidente linea di continuità con il nazismo, il Consiglio Musulmano della Gran Bretagna (350 organizzazioni aderenti) si è ufficialmente dissociato dalla commemorazione dell'Olocausto (notizia senza firma del Corriere della Sera, 24 gennaio 2005).
In occasione degli assalti di fanatici urlanti (misti probabilmente ad agitatori tutt'altro che spontanei – sui sospetti di utilizzo politico dei tumulti si veda ad es. Panella 2006a e l'articolo senza firma dell'8 febbraio 2006 ne il Foglio, o Allam 2006b e Galli della Loggia 2006a nel Corriere della Sera, o ancora Pera in Conti 2006a) alle ambasciate europee, in seguito alla pubblicazione di caricature di Maometto, il Corriere della Sera (4 febbraio 2006; cfr. sullo stesso numero Battista 2006a) ha del resto pubblicato qualche saggio della delicata ironia dei disegnatori dei quotidiani arabi riguardo gli ebrei: la parentela evidente con le caricature naziste non è che ulteriore conferma di quello stretto legame con quel razzismo sanguinario, che è ribadito anche nello statuto di Hamas (cfr. s.a. sul Corriere della Sera del 30 gennaio 2006; più ampi estratti sono pubbblicati su il Foglio del 3 febbraio), e trova conferma in quella "jihad del negazionismo" che definisce lo sterminio nazista come una "menzogna degli ebrei" (cfr. ancora Panella 2006a).
[309] Sul fenomeno delle conversioni in quest'ambiente cfr. Fabei in nota 323.
[310] Non si tratta certo di legami recenti: Jesi (p.99) menziona ad esempio la pubblicazione nel 1975 di Gheddafi, templare di Allah per i tipi delle Edizioni di Ar, collegate alla destra eversiva padovana. Qualche elemento in più ce lo dà Ledeen (non ho naturalmente riscontri sulle sue ipotesi): "Mentre le prove del coinvolgimento straniero nel terrorismo italiano erano indiziarie, le prove riguardanti quello di destra erano schiaccianti. I funzionari italiani sapevano che la Libia forniva denaro, addestramento e armi a organizzazioni neonaziste, fra cui Ordine Nero, e a vari movimenti separatisti in Sardegna e in Sicilia (un obiettivo particolare di Gheddafi) " (Ledeen 1986). Una segnalazione più recente in Allam 2003g, che si riferisce alle ""schegge impazzite dell'antiamericanismo", che prendono per oro colato le dichiarazioni di al-Qaida" (come le chiama Cossiga, intervistato da Pelosi): "Chiamiamole pure esercitazioni degli estremisti delle varie provenienze: fascisti, no global, animalisti, cattolici scismatici, islamici. Uniti dal collante dell'ostilità, dell'odio e della violenza: antiebraismo, antiamericanismo, antisistema, antiglobalizzazione. Alcuni devoti persino a nuovi miti: i kamikaze islamici, Osama Bin Laden, gli irriducibili della lotta armata. (…) Dopo l'attacco "selettivo" israeliano dello scorso 6 settembre, da cui si è salvato il leader spirituale del movimento islamico palestinese Hamas, la Comunità politica di Avanguardia (estrema destra) ha fatto affiggere sui muri di diverse città un manifesto dal titolo "Lunga vita allo sceicco Ahmed Yassin, Lunga vita a Hamas". Sempre in caratteri grandi vi si legge: "Israele non capisce il linguaggio del dialogo [la destra estrema sì?], ma solo quello della guerra e del sangue". Segue una apologia e esaltazione dei kamikaze islamici: "Il nostro abbraccio fraterno a chi offre la sua vita in combattimenti impari di fronte a un nemico infinitamente superiore militarmente, ma totalmente inferiore sul piano morale. Per il loro generoso ed eroico sacrificio il nostro affetto e rispetto eterno"".
[311] Affermazione non certo isolata nel contesto del movimento jihadistico: un'altra citazione tra le molte possibili è quella di Movsar Barsayev, che durante la presa di ostaggi moscovita dell'ottobre 2002 dichiarò "Noi aspiriamo più al martirio che alla vita" (cfr. Caverzan 2002); oppure queste parole da un'intercettazione telefonica, disposta dalla magistratura italiana: "Maledetti. A loro piace la vita, io voglio essere un martire, io vivo per la jihad. dentro questa vita non c'è nulla, la vita è dopo, soprattutto, fratello, la sensazione indescrivibile è quella di morire martire" (Olimpio 2003d). E Dershowitz (pp.161-2) citando Thomas Friedman: "Come ha detto Ismail Haniya, un capo di Hamas, al "Washington Post", i palestinesi stanno incalzando gli israeliani adesso perchè hanno trovato il loro punto debole. gli ebrei, ha detto, "amano la vita più di qualsiasi altro popolo al mondo e preferiscono non dover morire" " (cfr. Zecchinelli 2004). Il caso più noto è probabilmente quello della rivendicazione della strage di Madrid dell'11 marzo 2004 a nome Abu Dujam Al Afgani: "Voi amate la vita e noi amiamo la morte, che dà un esempio di quello che il profeta Maometto ha detto"; questi accenti hanno una valenza programmatica, quasi fondativi, molto diversa dagli occasionali richiami alla morte che pur sono apparsi nei moti democratici ottocenteschi – si pensi al romanzesco Evviva la morte degli insorti della barricata di via Chanverie (Hugo, p.1079).
Sulla necrofilia del radicalismo islamico e soprattutto palestinese vedi anche Gismondi, Nirenstein 2003 e Berman intervistato da Carioti; questa è accompagnata con tutta evidenza da sessuofobia e misoginia. Il mondo intellettuale si mobilitò nel secondo dopoguerra per riconoscere i tratti de la personalità autoritaria, che ben corrispondono al radicale islamico. è molto malinconico oggi constatare che questa intellighenzia sembra oggi accecata nel senso critico – tranne preziose eccezioni, come De Marchi – dalla necessità di rispettare le "specificità culturali", o di interpretare secondo una deriva nazionalistica se non anche di intolleranza religiosa i residui di ideologie originariamente dedicate al riscatto degli oppressi senza distinzioni di provenienza.
Era poi evidente, anche prima dell'"operazione" degli orchi di Beslan, come questo odio sanguinario avesse una significativa predilezione per l'infanticidio. Si pensi alle mattanze di bambini ebrei. Naturalmente si possono citare molti episodi che hanno costellato lo stragismo palestinese in particolare dagli accordi di pace del 1993 (Allam, 2004e, ricorda anche l'uccisione di sette turisti israeliani, di cui quattro bambini, da parte di un soldato egiziano nel 1985): emblematica l'orgogliosa rivendicazione dell'assassinio di un bambino di tre anni e del nonno; non certo il primo di una serie di infanticidi, solitamente ancora più mirati e crudeli: "The Hamas' military wing Izz al-din al-Qassam claimed responsibility for the attack. In a statement issued the group said, "Four Kassam rockets bombarded the settlement of Sderot this morning and with the help of Allah, two Zionists were killed and a number of Zionist settlers were injured"" (Buhbut e Binder). Da questo punto di vista esiste un episodio di fondamentale importanza storica (ce ne si accorge con l'amarezza del senno di poi), la strage di Ma'alot del 1974, della quale furono vittime ventuno bambini israeliani. Anche all'indomani di Beslan essa viene colpevolmente dimenticata, con l'eccezione de il Giornale (Patto mondiale contro la peste del terrorismo), in nome dell'ipocrita distinzione europea tra terrorismo palestinese e qaedista (cfr. s.a., Ma'alot prima di Beslan).
Come spiegare questo particolare accanimento? Anzitutto in quanto si ravvisa nei bambini quanto di più caro possa avere la comunità colpita degli attentati, ma anche perchè l'infanzia è simbolo di vita oltre che di innocenza.
Non c'è però solo questo, perchè il disprezzo per le vite infantile non risparmia i musulmani (rendendo così un'evidente scusa le giustificazioni che imputano all'Occidente misfatti simili): dai massacri d'Algeria alle autobomba del 30 settembre a Bagdad, tutto fa pensare si tratti della conseguenza della rimozione di ogni remora, dovuta al fanatismo.
C'è forse un'altra componente in questo: nelle società sovrappopolate e quindi con eccesso di individui nelle classi di età più giovani, così come in generale nelle società arcaiche, è oltretutto probabile che il bambino sia comunque oggetto di minore considerazione che in società demograficamente avanzate: si pensi ai bambini-soldato di Khomeini (ma il discorso vale anche per le altre popolazioni che li impiegano), che venivano mandati al macello sui campi minati iracheni per aprire la strada all'offensiva dell'esercito regolare, o a tutta la propaganda radicale dei quali è vittima l'infanzia (vedi le note 145 – con Allam, 2005c – e 187), finalizzata alla creazione di kamikaze anche giovanissimi si pensi anche alle parole di Abu Hamzada Bottarelli 2005, cfr. nota 193.
[312] Dei falangisti il motto "Viva la muerte!" di Millan-Astray Terreros, fondatore del Tercio.
[313] Uno slogan ripetuto spesso e sempre acriticamente ("di sconvolgente superficialità", lo definisce Sartori, 2000a p.50) – è ironico pensare sia molto più propriamente applicabile al libero commercio, proprio ciò che i no global avversano.
[314] Più sfumato il caso della "società multiculturale", che si può intendere sia come ricerca della fusione sia, forse più correttamente, della compresenza parallela di tradizioni separate. In questo senso potremmo intendere quanto scritto nell'Introduzione al Dossier Immigrazione 2003 della Caritas: "le culture originarie, specialmente nei protagonisti della prima generazione, meritano perciò di essere coltivate, evitando così che gli immigrati vengano destrutturati nella loro personalità. Questo va a anche a beneficio del paese che li accoglie, perchè queste persone, seppure non ricche di risorse materiali, sono portatrici di diversità linguistiche, culturali, sociali e religiose con le quali, in un mondo globalizzato, è indispensabile confrontarsi: è questo il grande concetto dell'intercultura". Sartori (2000a) indica i pericoli (anzitutto, la disgregazione delle società pluralistiche) insiti in questa seconda accezione – si veda ad esempio il passo riportato nel §2.2. Di tali pericoli sembrano finalmente essersi accorti i britannici per bocca del blairiano (ed afro-caraibico) Trevor Phillips, che preannuncia un'inversione ad U rispetto ad una decennale politica di multiculturalismo separatista (cfr. Panebianco 2004c).
Iraci Fedeli avverte ruvidamente (1990, p.92): "Gli arabi che verrebbero in Italia non possono diventare italiani, e non vogliono diventarlo. Quello che intendono per "società multirazziale" non è neanche una società, in cui non sia rilevante l'origine, ma una società che diventerebbe la giustapposizione (e, perciò, la tendenziale contrapposizione) di etnie organizzate. Quando sia nota l'intolleranza dominante in tutti i paesi arabi, non si può dubitare di dove si andrebbe a finire! Su questo gli immigrazionisti, o non hanno le idee chiare, o vogliono mistificare il problema ".
[315] È paradossale notare come uno dei casi più notevoli di convivenza multietnica sia quello degli Stati Uniti, lo riprova la grande compattezza nazionale seguita all'attacco dell'11 settembre 2001 (si vedano ad esempio l'intervento di Oriana Fallaci, o l'intervista di Polese a Sartori). Ancora più paradossale il secondo, quello di Israele, nel quale – si veda quanto afferma Borioni alla nota 222, insospettato probabilmente da chi conosce questo paese solo dai parziali resoconti della maggior parte dei mezzi di informazione europei – convivono popolazioni estremamente differenti tra loro: oltre al caleidoscopio costituito dagli ebrei delle più svariate provenienze, e alla massiccia componente arabo-israeliana, vi è anche una rilevante immigrazione dall'area ortodossa ed est-asiatica.
[316] Un caso è balzato agli onori delle cronache nell'ottobre 2004: Halloween, da rifiutare nonostante la presenza in Italia di un ragguardevole numero di statunitensi, mentre i cantori della meraviglia per le culture "altre" proclamano la necessità di conoscere usi e tradizioni di altri popoli: da qui l'invito a festeggiare il Capodanno cinese, a incuriosirsi per il Ramadan, persino qualcosa sulle feste ebraiche (in fondo lievemente toccate dalla moda, nonostante Israele, per via di vetrine accettate quali Benigni e Ovadia).
Ecco quindi la motivazione: "non ci appartiene" (Don Paganini, che da Brescia ha scagliato la prima pietra). E Tarcisio Bertoni, arcivescovo di Genova: "Ribadisco la mia netta opposizione a una festa che non ha nulla di cristiano" (per ambedue cfr. la cronaca del Corriere della Sera del 27 ottobre 2004). Riassume così Gatto Trocchi sull'Avvenire: "Si tratta di un vero e proprio processo di "desacralizzazione" che l'ambiente consumistico e materialista americano sta imponendo da vari anni". Un'osservazione completare, che dobbiamo all'acutezza di Luigi De Marchi: la volgare truculenza dei western all'italiana è stata glorificata negli ambienti intellettuali perchè dissacratrice dell'epopea del West. Sia Halloween che il mito della frontiera sono certo discutibili quanto si vuole. Ma mi pare che ci risiamo: quanto è americano – a meno che non sia di opposizione, alla Moore – non piace. Specialmente risultato di una libera scelta.
[317] Questo viene fuori chiaramente dalle dichiarazioni un po' ingenue dello psicanalista Giorgio Omodeo a Zani. "Alcune caratteristiche della cultura islamica possono esserci utili per difenderci dagli eccessi del consumismo [ma ha idea di come spendano i loro soldi gli islamici ricchi?], così come la loro concezione della donna può servire a ricordarci che una parte di sceicco del deserto c'è anche in noi [il pensiero corre naturalmente a Totò, in una delle sue più famose interpretazioni]".
[318] L'impronta crociana sul pregiudizio antiscientifico nella nostra cultura è stata oggetto di dibattito nei decenni: segnalo su questo il recente intervento di Pancaldi.
[319] Dall'intervista rilasciata da Vittorio Colao, amministratore di Vodafone Italia, a Emilio Bonicelli: ""Competenze tecnologiche degli italiani: siamo tredicesimi su diciotto Paesi europei. laureati in discipline scientifiche: siamo a metà della media europea. Spese per la ricerca: siamo a un terzo della media europea."". A proposito di questo e sul medesimo giornale aveva scritto pochi giorni prima Garattini: "Probabilmente queste mancanza di attenzione ha numerose ragioni; anzitutto esiste forse un problema culturale visto che la maggioranza dei membri del Parlamento è di derivazione giuridico-letteraria e ha quindi poca familiarità con il rapporto ricerca-innovazione (…) In realtà dovremo vergognarci per il nostro scarso contributo alla ricerca: siamo il sesto paese industrializzato del mondo e non possiamo continuare a vivere da parassiti senza contribuire secondo le nostre possibilità all'aumento delle conoscenze scientifiche. Stiamo divenendo un paese dove per tanti settori, in primis il campo biomedico, il nostro fondamentale ruolo è quello di essere degli agenti di commercio delle scoperte altrui. I ricercatori sono spesso spronati alla competizione, ma come si può competere avendo in Italia 2,78 ricercatori per ogni mille lavoratori attivi quando la media in Europa è di 5,36 e la Francia a noi vicina ne ha 6,20 sempre per mille lavoratori? (…) In tutte le classifiche riguardanti spese, brevetti, ricercatori siamo sempre all'ultimo posto, anche se spesso ci salva la Grecia, ma non sempre come nel caso del numero di ricercatori ". In questo senso anche Panebianco, in un articolo apparso poco tempo dopo, che parla di "pregiudizi antiscientifici diffusi nel Paese (che contribuiscono a spiegare anche il disinteresse della classe politica per la ricerca scientifica)". Ancora più illuminante ai nostri fini quanto afferma Modeo a proposito della terapia farmacologia della depressione: "Tra i tanti motivi di una simile interdizione forse il principale resta l'antiscientismo costitutivo del nostro Paese: quella fobia ideologica – cerniera tra destra neospiritualista e sinistra veteroumanista – che vede nello psicofarmaco una "soppressione del sintomo", colpevole da un lato di "impoverire il vissuto del soggetto" privandolo della "ricchezza del dolore" dall'altro di ridurre le masse a materia inerte nelle mani del potere socio-economico", aggiungendo di seguito: "ora, non è necessario ricordare come spesso discorsi simili vengano formulati da psicoanalisti-maghi sulla pelle degli altri e a proprio profitto (lo stesso profitto imputato alle major farmaceutiche) ". Aggiungiamo quanto annota Boncinelli, intellettuale che coniuga con grande finezza competenza scientifica e sensibilità umanistica: "Per un motivo o per l'altro la scienza è sempre alla ribalta, oggetto delle più contrastanti valutazioni. (…) la valutazione che di questo fenomeno viene data può variare enormemente da un autore all'altro, da un ambiente all'altro, da un paese all'altro. Nel nostro si tende a darne una rappresentazione negativa. E poi ci si lamenta se i giovani non si incamminano verso le carriere scientifiche… personalmente, mi è capitato spesso di partecipare ad iniziative promosse per propagandare le carriere scientifiche e invogliare i giovani a indirizzarsi in quella direzione e di ascoltare una vera e propria gragnola di critiche alla scienza stessa. Sono uscito spesso indignato da tali fiere della vanità e della banalità, convinto che se fossi stato un giovane una manifestazione del genere mi avrebbe allontanato per sempre dal pensiero di imboccare questa strada.negli ambienti intellettuali italiani "fa molto fino" criticare la scienza, per non parlare della tecnica, scimmiottando in questo l'atteggiamento di alcuni intellettuali di Paesi come la Francia e la Germania, dove si levano sì molte voci critiche ma si fanno anche enormi investimenti nel campo della scienza e della tecnologia" (2005).
[320] Gran frequentatori di maghi o, se proprio devono rivolgersi al medico, sostenitori dell'omeopatia, dei fiori di Bach o del metodo Di Bella (non per una meditata convinzione tecnica, me per fideismo taumaturgico).
[321] Mori sostiene che i mezzi di comunicazione (in Italia, perlomeno) sposino quasi sempre quell'accezione della bioetica che si può chiamare difensiva: questa viene intesa come un baluardo nei confronti dell'arbitrio del mondo scientifico e tecnologico, che rischia di disumanizzare il mondo, rendendolo schiavo delle macchine. L'accezione opposta di bioetica, assai meno popolare nel grande pubblico, è invece quella di campo di dibattito per individuare una diversa tavola di valori, che tenga conto delle mutate circostanze –in particolare delle nuove possibilità offerte dalla ricerca. Questo si deve non solo al desiderio di interessare il lettore con un approccio spesso scandalistico, ma anche al pervasivo influsso non solo della Chiesa ma anche dell'atteggiamento anti-macchinistico di certo marxismo, influenzato dalla Scuola di Francoforte (citando al proposito il recente – e "pessimo" – libro di Habermas sui limiti della natura umana).
[322] Su questi temi cfr. Furcht 1999b.
[323] Teodori, pp.123-4, cita le interpretazioni dell'antiamericanismo suggerite da Hollander (Anti-americanism. Critiques at Home and Abroad 1965-1990, New York-Oxford, Oxford University Press, 1992): nazionalismo, anticapitalismo, protesta contro la modernità. Intervistato da Margiocco, torna su questo concetto: "L'antiamericanismo è una forma storica di antimodernismo in cui confluiscono l'anticapitalismo della sinistra, l'anti-secolarizzazione dei cattolici e l'anti-individualismo della destra, generalmente congiunte in un'ancestrale avversione al liberalismo". De Marchi (L'antiamericanismo) trova particolarmente convincente l'interpretazione dell'ostilità agli USA come avversione alla "società aperta" popperiana, in quanto ne spiega in modo persuasivo la diffusione nelle aree cattolica, marxista e fascista – accomunate dal dogmatismo ideologico e dall'attesa millenaristica della società perfetta: "con la sua stessa forza vittoriosa la società americana simboleggia invece il trionfo del pragmatismo liberale sul dogmatismo politico-religioso e sulle sue utopie celesti e terrestri"(intervento del 24 maggio 2002). Sulla convergenza di sensibilità opposte su questo tema interessante il passaggio dell'immediato dopoguerra, quando si delineava la Guerra fredda, evidenziato da Casanova: "La propaganda antiamericana del PCI si scatenò in ogni dove e si potè valere di una organizzazione capillare capace di esercitare una influenza pressante in tutti gli ambienti sociali. Questo sforzo propagandistico colse risultati notevoli sulla base del partito e su quella del PSI, innestandosi sugli aspetti postumi dell'antiamericanismo diffuso per un decennio per motivi opposti, ma con argomenti non molto diversi, dagli organi propagandistici del regime fascista. Lo stesso leader dava il la con insolita pesantezza a questa propaganda: un fondo de L'Unità del 20 maggio 1947 portava il titolo, indirizzato agli americani in modo grossolanamente offensivo, "Ma come sono cretini!", mentre il contenuto lasciava trasparire un'animosità preconcetta…" (p.229); anche Andreotti, citato da Delera, torna sull'episodio: "Ci furono momenti drammatici [nel '47, momento del divorzio dalle sinistre]. E il dissidio era sostanzialmente sulla politica estera. Devo dire che Togliatti ci agevolò con un discorso titolato "Ma quanto sono cretini gli americani"". Segnalo ancora l'intervista a Melograni che afferma con ragione, coinvolgendo però – indebitamente, a mio modo di vedere – tutta la sinistra: "Il fatto è che la sinistra non è cambiata nel profondo (…) a causa delle sue paure. Nel profondo è conservatrice, teme il nuovo, sfugge la modernità capitalistica. (…) ma è evidente che anche tra i giovani c'è una grande paura del mondo nuovo: questi professorini [si riferisce a Toni negri], che lo sanno, ne approfittano" (Fertilio 2005); si veda anche Pera in nota 181.
[324] Nel quale si riconosce quello che Sartori (2000a, p.102), richiamandosi anche a Panebianco 1989 (cfr. il passo in nota 57), chiama "fasullo terzomondismo, nel quale confluiscono, rinforzandolo in modo abnorme, sinistre e populismo cattolico"; si veda anche l'intervista rilasciata a Polese. Su questo si leggano anzitutto il libro di Teodori e l'intervento di Pera; cfr. anche Nirenstein 1990 (in particolare il cap.VIII), e l'intervento di Galli Della Loggia (2002). Per quanto riguarda l'Islam, leggiamo in Allam, in riferimento ad alcuni squadristi islamici che l'avevano aggredito in occasione di un incontro pubblico (2005j): "La verità è che questi loschi figuri accampano un potere che poggia sul controllo di moschee trasformate in centri di potere religioso, politico e finanziario. Ma la stragrande maggioranza dei musulmani li evita e li ripudia. Il problema serio è che continuano a trovare sostegno e traggono una qualche forma di legittimità grazie all'ingenuità, alla viltà e alla collusione ideologica di ambienti politici, religiosi cristiani e accademici italiani. Ebbene mettetevi nei panni dei musulmani perbene e capirete che non è affatto facile dover combattere sia contro gli estremisti islanmicisia contro gli italiani ideologizzati che danno loro man forte".
[325] Non si tratta di un'esclusiva della sinistra: in Jesi pp.55-6 leggiamo una ricostruzione del "segreto orientalismo della Germania", come lo definì Thomas Mann, collegato anche alla cultura antisemita del Sette-Ottocento. Le propaggini di tale orientalismo si estesero anche al nazismo: cfr. Jesi p.60, Galli 1989/2005, i documentari di Montesanti e quello di Cecchi Paone, la recensione di Caretto (2006a) al libro di Pringle. Un rilievo particolare assunsero la protonazista Thule-Gesellschaft, tra cui adepti c'erano Hess e Rosenberg, e l'Ahnenerbe, frutto delle strampalate fantasie di Heinrich Himmler: non solo il più crudele di questi assassini su grande scala (ma a differenza di altri, quali Göbbels, anche voltagabbana dell'ultimo minuto), ma anche cultore di un esoterismo nel quale si mischiavano Atlantide e le piramidi, il Tibet e i templari, come nelle mode kitsch-parascientifiche dei giorni nostri (lui stesso credeva di essere la reincarnazione di Enrico l'Uccellatore, cfr. Montesanti o Galli 2004 e 2005 p.156); vedi inoltre le pagine web di Wikipedia. Ancora su questo le dichiarazioni dell'orientalista di estrema destra Filippini Ronconi: "Vi furono due missioni gnostiche, nel 1933 e nel 1938, costituite dalla vere Ss, che si recarono in Tibet. Vere Ss in quanto non identificabili nei reparti di polizia ma in quelli di assalto di origine nordica che crearono poi i reparti internazionali", in s.a., Società Civile).
L'Ahnenerbe rimase poi pur marginalmente coinvolta, solo nella persona del suo direttore Wolfram Sievers, in alcuni orribili crimini riguardanti esperimenti medici sui prigionieri dei lager (molto pesanti le responsabilità secondoheather pringle, cfr. Caretto 2006a).
Sul rapporto con l'Islam scrive Fabei: "Nel nazionalsocialismo, così come nel fascismo, esisteva un forte filone favorevole all'Islam e alla sua cultura. Le sue origini più profonde risalivano addirittura alle radici romantiche del nazionalismo tedesco (…) Di fronte alle idee universalistiche della Rivoluzione francese, si erano diffuse in Germania correnti nazionaliste che insistevano sulla specificità dei popoli, sull'immutabilità dei caratteri nazionali. Fra gli intellettuali tedeschi, da Herder in poi, si era diffusa l'idea dell'esistenza di un "Volksgeist" – spirito popolare o genio nazionale – distinto per ogni popolo e per la cui salvezza si doveva lottare. Molti furono i tedeschi che si sentirono affascinati dal mondo arabo e islamico (…). Questa corrente di ammirazione per il mondo arabo-islamico, caratteristica del nazionalismo tedesco, si estenderà allo steso Hitler e ad altri famosi capi nazionalsocialisti, come Himmler[affascinato peraltro anche dal buddismo, cfr. Cecchi Paone] (…) Effettivamente alla posizione filoislamica di Hitler corrispose, negli ambienti nazionalsocialisti, una diffusa simpatia per l'Islâm, che diede luogo, negli anni trenta, a numerose conversioni di tedeschi" (pp.70-1 – esempi di conversioni alle pp.71, 78, 159, 236, 358; sulle simpatie islamiche di Himmler si veda anche il documentario di Siebert).
[326] Mi ci sono soffermato in Furcht 1993, e in Furcht 1990, p.660, ove richiamavo i legami col mito settecentesco del "buon selvaggio"; già ne accennava Nirenstein 1990 (si veda anche la nota 296 qui), che a pp.143-4 scrive: "Quando il terzomondismo negli anni Sessanta è diventato quel Grande Kitsch di cui parla Milan Kundera, destinato ad affascinare e anche proprio a saldare al partito migliaia di comunisti, di intellettuali occidentali, si è diffuso il vagheggiamento di altre culture, altre musiche e canzoncine, altri linguaggi e sapori, l'uso e l'abuso della categoria di etnocentrismo"; si veda anche p.130, e p.33 in Nirenstein 2003. Rampini (2003b) coglie anche il nesso tra questa insana passione per mondi lontani e una ben più vicina insoddisfazione esistenziale, che si mescola a contorsioni psicologiche causate anche dalle mode (perlomeno stavolta oggetto dell'ammirazione è la più pacifica cultura indù, che seppe produrre un grande campione di tolleranza) "Da Gandhi a Madre Teresa di Calcutta, poi, il viaggio in India ha aggiunto alle ragioni della sua attrazione sugli occidentali anche il fascino mistico della povertà. Nella fusione armoniosa di miseria e spiritualità, fame e dignità, sofferenza e trascendenza, generazioni di europei e americani in pellegrinaggio hanno eccitato i proprio complessi di colpa e ricercato la prova dell'inferiorità del proprio modello di vita: così ricchi e così infelici".
Di queste insane passioni discute anche Augè, intervistato da Gambero: "Lei afferma che tutte le società, in un modo o nell'altro, sono sempre repressive. "Le logiche del potere trascendono le forme istituzionali, sono le stesse dappertutto. Quando ho scritto il libro molti pensavano – e qualcuno lo pensa ancora oggi – che nelle cosiddette società primitive i rapporti di potere non esistessero. In realtà, il potere si manifesta anche lì, e talvolta con forme repressive molto marcate. Insomma, i paradisi primitivi sono miti che non esistono. Ma in quegli anni la valorizzazione delle differenze era molto forte, tanto è vero che ne paghiamo le conseguenze ancora oggi". Cosa vuol dire? "L'esasperazione del diritto alla differenza ha prodotto un culturalismo i cui effetti perversi sono oggi percepibili da tutti. In nome del rispetto degli altri a qualsiasi costo, c'è chi giustifica l'ingiustificabile. Nelle altre culture – ad esempio in quella islamica – tolleriamo valori e pratiche che non ammetteremmo mai nella nostra. Questo atteggiamento nasconde una sorta di razzismo capovolto, perchè nel nome della differenza, accettiamo nell'altro anche ciò che non tolleriamo in noi, considerandolo di fatto a un livello inferiore al nostro. Questa vittoria del politically correct finisce pure per intimidire il pensiero democratico. In realtà, si può essere benissimo tolleranti e molto fermi sui principi. la tolleranza non deve mai tollerare l'intollerabile, come ad esempio la disuguaglianza dei sessi o la repressione della libertà religiosa"". Tra gli interventi che celebrano le magnifiche sorti e regressive delle culture premoderne troviamo in queste pagine Calducci, Fini, il Gruppo Abele, Rinaldi, Terzani.
[327] Ariosto, Satira IIIª, vv.49-54.
[328] Non però necessariamente infondato dal punto di vista epidemiologico (lo scandalo manifestato da alcuni, quando vengono formulati questi allarmi, è comprensibile ma poco attento ai dati di fatto): la storia abbonda di morbi letali scatenatisi in seguito a rimescolamenti di popolazione – particolarmente tragico il caso degli Indios dell'America centro-meridionale (si veda ad esempio il Ruffiè e Sournia, o l'articolo di Cosmacini); il pericolo di contagio di alcune malattie infettive – AIDS, TBC e SARS per esempio – può essere significativamente innalzato dalla presenza di popolazione proveniente dai PVS, anche se più insidioso pare essere il turismo in zone tropicali, in particolare quello "sessuale".
[329] Forse ingenerosa ma sicuramente interessante l'ipotesi di Sacco (pp.38-40) secondo il quale il volontariato, unitamente alle organizzazioni "no profit" ed ai servizi sociali finanziati pubblicamente (restando almeno nel campo dell'immigrazione), costituirebbe soprattutto un'enorme riserva clientelare; si vedano anche Giovanna Zincone p.657, De Bac, De Marchi (Il successo di Le Pen in Francia) e Nirenstein 1990, pp.135 e seguenti, e diversi articoli de il Giornale dell'agosto 2004 (qui cito Filippi, Malapica, Scarpino, Albertelli e Malapica, Cervi) che denunciano spese anche in settori ideologicamente affini (per es. 40.000 euro annui dal comune di Brescia e 65.000 dalla provincia di Roma, rispettivamente quale contributo per la "Consulta della pace" e quale contratto annuale "per agevolare le politiche internazionali di pace"). Specificamente sulle Ong (o meglio, su alcune di esse: le peggiori, evidentemente) che operano all'estero si veda quanto scrive Nicastro, commentando le parole di scetticismo di una poliziotta afgana: "Intende le Organizzazioni umanitarie che presentano i drammi dell'Aghanistan per rastrellare denaro e che poi scompaiono. Succede, purtroppo" (2005g).
Che avesse ragione quel maligno di Ricossa (un noto uomo politico usava dire che a pensar male si fa peccato, ma la si azzecca)? Leggiamo, a p.56: "Il quale burattino [Pinocchio], se non fosse appunto un citrullo, dovrebbe capire tutto e subito, non appena il Gatto e la Volpe gli dicono: "Noi non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri". Ecco il biglietto da visita dei solidaristi bugiardi: "Noi non lavoriamo per il vile interesse". Il loro "altruismo", che talvolta diventa un invocazione al bene pubblico, serve a nascondere la loro avidità".
[330] Si vedano ad esempio i passi riportati in Melotti 2000, pp.23-4, e anche quello di Ferrarotti citato nell'§1.4. Cfr. anche le osservazioni di Panebianco in nota 69). Vedi anche Andrè Glucksmann, che parla della Francia: "Gli integralisti islamici sono calorosamente accolti dalle buonanime altermondialiste. Tutto si svolge come se i contestatari politicamente corretti trovassero negli "intifadisti" dei quartieri più svantaggiati una nuova "base di massa", un surrogato degli operai che non recluteranno mai. Reciprocamente, le bande di periferia apprezzano l' ombrello giuridico e mediatico che i benpensanti ex terzomondisti garantiscono loro" (2004).
[331] Ma gli esempi potrebbero essere molti di più. Interessante in questo senso Daniele (sottolineatura mia): "un altro [immigrato] dice (…): "vedendo gli italiani e il loro modo di vivere uno si avvicina di più alla sua religione, alla sua cultura, perchè non condivide la superficialità, il materialismo, per cui si attacca di più ai suoi valori religiosi originari". è forse questa la risposta più eloquente a quanti vedono un pericolo nell'"invasione musulmana" rispolverando lo spauracchio dell'infedele: la religione diventa punto di riferimento fondamentale perchè si sente la mancanza di valori umani quali l'amicizia e la solidarietà; il vero nemico è, non solo per gli immigrati, l'indifferenza.(…) Il sentimento di disagio di fronte ad uno stile di vita "laicizzato" (ma io direi "disumanizzato") è ancora maggiore poichè, appunto, si estende a tutti gli aspetti della vita sociale. Detto in altre parole quello che colpisce è la mancanza di moralità (etico-religiosa) che porta allo sfruttamento sul lavoro, all'amicizia superficiale e interessata, in sintesi allo scarso rispetto per la persona " (p.76). Riguardo quest'ultima affermazione, ricordo sommessamente che in molte società profondamente religiose era ed è presente lo schiavismo (o la servitù della gleba), per non parlare dei casi-limite di taglio rituale di teste, antropofagia e sacrifici umani. A mio modesto avviso il "rispetto per la persona" (scrivere "individuo" pare equivalere a una parolaccia) procede invece con la rivalutazione dell'autonomia del singolo rispetto al gruppo d'appartenenza, uno dei portati centrali del fenomeno della secolarizzazione. Certo, rispetto e solidarietà a volte sono in certa misura antitetici – ma torneremo su questo in Appendice 2.
Ancor più rivelatore quanto scrive Persichetti, sempre in relazione all'Islam. Non manca anzitutto la rituale evocazione dell'Altro (un altro esempio in nota 137): "Un dato su tutti si impone prepotentemente in questa guerra: l'incapacità di comprendere l'Altro. è a causa di questa incapacità strutturale, caratteristica della cultura occidentale di quest'inizio secolo, che i cosiddetti esperti non sono stati in grado di prevedere la resistenza irachena all'invasione angloamericana". Mi pare curioso affermare che sia proprio la nostra civiltà ad essere rigida, poco aperta, incapace di comprendere ed ascoltare; ma andiamo avanti, per cogliere il richiamo a valori arcaici che penso essere un'importante componente dell'opposizione all'assetto delle società "capitalistiche": "Che in altre culture il corpo sia sociale, che della vita si faccia un uso collettivo. Che alla morte e alla vita si diano altri valori: questo non è ammesso dalla nostra cultura, che la morte paventa, sul corpo terapeuticamente s'accanisce e la vita ottimizza in qualità e lunghezza. Che la morte sia un bene sociale, un investimento sul futuro del gruppo risulta incomprensibile [non in prospettiva sociobiologica (eclatante il caso degli imenotteri), cfr. Furcht 1999b], deplorabile. La bella morte degli eroi d'Euripide è applaudita finchè confinata nell'ambito della rappresentazione teatrale, ma gli eroi viventi di questi giorni, che s'immolano [si rilevi la consonanza di termini con Giulio Andreotti, cfr. il commento di Pappadà] per opporsi a un potere iniquo e a una cultura materialistica percepita come aggressiva [si veda ancora quanto detto al §.3 e in particolare la nota 181], sono bollati come fanatici, megalomani, squilibrati". Anche il seguito è un'esaltazione delle superiori esigenze del gruppo rispetto all'individuo, intrisa di nostalgia per un mondo di Gemeinschaft: "Piuttosto, non sarebbe più utile recuperare, per capire la forza delle idee, il potere della dimensione comunitaria, la sacralità dei valori di gruppo capace di mobilitare i corpi dei suoi membri? (…) Qui il pubblico sconfina col privato: il superiore fine politico della giustizia mette in gioco il corpo dei singoli (…) Forse, invece di "esportare libertà e democrazia" dovremmo re-imparare ospitalità, sacralità, passione politica". Ma l'appello alla comprensione dell'"Altro", non si rifà proprio ad alcuni dei frutti di quella cultura del sapere aude, che è proprio la negazione sia della tradizione sia della sacralità? Capire chi è differente da noi non presuppone quella originalità critica conculcata dalla prevaricazione del gruppo rispetto all'individuo?
Infine Balducci "La disattenzione verso le dimensioni corali dell'esistenza è grave nella nostra cultura. (…) Il barbaro ci porta modelli di vita (…) La caratteristica dei barbari è che essi nella loro cultura non hanno niente che rassomigli alla priorità dell'economico che caratterizza la storia occidentale. Il momento produttivo è del tutto interno ad altri momenti in cui si trova significato. Anche un'attività produttiva che al nostro occhio sembra inutile, puro sperpero, insignificante, acquista, se collocata nella organica cinta culturale, se pur primitiva, un significato altissimo. Il bisturi occidentale è entrato nel tessuto vivente della cultura, lo ha tagliato ed ha preso per sè come unica importante la dimensione della cultura. Ma questa disaggregazione del sistema culturale ha prodotto nei barbari stessi un processo di degradazione, di urbanizzazione e di ricerca affannosa e confusa della vita dei dominatori… Viviamo la crisi di questo processo. è su questa crisi che c'è ormai una concordia generale da parte degli antropologi che non siano al servizio delle mire politiche e delle multinazionali [infatti questi concetti si sentono ripetere spesso, cfr. ad es. Terzani in nota 296, o Fini 2003]"; il passo è citato da Nirenstein (1990, pp.146-7 ) col seguente commento: "In questo scritto c'è un intera collezione da museo del '68 di sensi di colpa, teoria del complotto [cfr. nota 63], furia antieconomica, mitizzazione del buono integrale in confronto al cattivo integrale. E c'è però anche molto di più, c'è Rousseau, c'è l'idea che si parli nè più ne meno che dell'infanzia del mondo corrotto da un violentatore maniaco". Cfr. anche Panebianco in nota 57.
[332] Possiamo intenderla come una versione mistica dei barbari di Kavafis ("Era una soluzione, quella gente" in Aspettando i barbari). Si veda l'analisi di Balducci, come riassunta in Bassetti sul web, che ne cita alcuni passi. "Quelle tribù vengono verso di noi con le mani colme di doni"', passaggio illuminante dell'ultimo scritto, Montezuma scopre l'Europa; più chiaro ancora un passo riportato da La terra del tramonto: "I barbari vengono verso di noi con un dono di cui abbiamo necessità. Essi ci offrono l'occasione per la scoperta della nostra umanità più profonda, dei rizoma da cui le culture provengono come efflorescenze. La cultura che rifiuta la reciprocità si condanna all'isterilimento" [su quest'attrazione verso i barbari interessante quanto riportato in nota 88]. Ovviamente l'accento è posto sui contributi delle culture e i rapporti tra di esse, e non sugli individui: nella lezione dal titolo programmatico I barbari nostra speranza conseguentemente leggiamo "Attraverso il dialogo attento con le altre culture, messe su un piede di parità, considerate del tutto come la nostra, senza fare gerarchie prive di senso, possiamo riscoprire gli archetipi comuni, ritrovare il limite del nostro modello che presumeva di esaurire tutte le possibili forme umane".
[333] Del resto questo succede con infelicità e dolore. Tra i molti possibili esempi, prendiamo l'incipit della cronaca della XIII giornata mondiale del malato: "nell'età in cui la genetica sembra non conoscere limiti nella possibilità di migliorare la vita degli individui [detto con sospetto, si noti bene] sino a manipolarne la specie, il mondo cattolico risponde a questa sfida valorizzando l'esperienza della sofferenza e della malattia come dimensioni determinanti dell'essere umano" (Panza, 2005).
[334] Si può pensare che tale tic sia diffuso non solo tra noi "grassi e sazi", all'insegna del motto "l'erba del vicino è sempre la più verde": "Invece il laico Naipaul, spietato critico del proprio paese, non ha mai perdonato a Gandhi di aver contribuito ad alimentare tra gli stessi indiani una mitologia della povertà. Nel suo ritorno in patria nel 1962 racconta di avere scoperto che per la maggior parte dei suoi connazionali "la povertà indiana era ancora un concetto poetico, un'ispirazione alla pietà e ad una dolce malinconia, un ingrediente dell'unicità dell'India, del suo antimaterialismo gandhiano". Con orrore Naipaul ricorda un amico giornalista che si estasiava di fronte alla "bellezza degli intoccabili"" (Rampini, 2003b).
[335] Cui non mi sembra poi così reazionario contrapporre la speranza di un'umanità futura costituita solo da ricchi (pazienza se non si passerà per la cruna dell'ago).
[336] Il rifiuto dell'Occidente e del suo materialismo da parte dei relativisti culturali era già stato evidenziato da Panebianco 1989, cfr. nota 69. Cito en passant una dichiarazione del cardinale Scola, che mescola senso di colpa ad autofustigazione morale: "" (…)Per non parlare delle condizioni tragiche in cui vivono le masse di diseredati dell' Africa subsahariana, le cui immagini ci raggiungono quotidianamente violando la tranquillità borghese delle nostre case ed inquietando la nostra opulenta, cattiva coscienza...".(…) "l' uomo europeo non può evitare un giudizio sul suo presente", dice il Patriarca, e affonda: "La crisi demografica, l' impotenza a costruire una piena unità europea, uno stile di vita osceno negli affetti e nei consumi". Dice proprio così: osceno. E parla di "libertinismo", di una cultura "che confonde il senso dell' amore e dei consumi". Così l' uomo europeo è chiamato a "indagare le cause di questa situazione di grave debolezza, per individuare una via d' uscita"" (Vecchi 2004e). Se il giudizio morale sulle civiltà si basasse sulla censura dei liberi comportamenti individuali anzichè su parametri quali il livello di violenza diffusa, adottiamo un principio che porterebbe a pensare che sia peggio uno stile di vita dissoluto che non lapidare gli adulteri
[337] L'episodio forse più emblematico del passato è quello che ci ricorda, tra altri, Nirenstein (2003, pp.19-20): "Il sindacato marciò il 30 settembre [1982] di fronte alla sinagoga di Roma con slogan di odio antiisraeliano e antisemita insieme, e depose di fronte alla lapide dei deportati una bara vuota. Luciano Lama tenne un discorso in cui imponeva agli ebrei di dissociarsi da Israele. (…) Purtroppo allora la polemica rovente fu marcata dall'attacco terrorista alla sinagoga di Roma il 9 di ottobre: nella mattina di Shemini Atzeret fu falciato dai palestinesi il bambino Stefano Tachè, un anno, e furono feriti trenta ebrei romani". L'epicentro di questo fenomeno è probabilmente la Francia, della quale scrive Andrè Glucksmann (vedi nota 329). Certo questo non vale per solo per la sinistra e soprattutto non vale per tutta la sinistra (mentre vale per tutto o quasi lo schieramento "terzomondista"): si leggano nel volume "Perchè Israele" i contributi di Landolfi e Del Turco per i socialisti, e quelli di due esponenti dei DS: Macaluso (una breve prefazione) e soprattutto la lucida, sofferta analisi di Caldarola, con pertinente richiamo al saggio Il biasimo di Israele di Alain Finkielkraut, pubblicato nel 1983 da Nuovi Argomenti; cfr. anche Reibman intervistato da Magni, Pillitteri e Diaconale.
[338] Sull'uso poco rigoroso di termini quali "oppressione" e "violenza", e sui collegati funambolismi intellettuali, si veda Sartori 2000a (pp.67 e seguenti) e Sartori 2001c, in risposta a Terzani 2001b.
[339] Si vedano ad esempio Melotti 1996 e 2000a, e Iraci Fedeli 1990, pp.35 e 43, e 2000, p.85; ma si pensi anche all'ossimorica espressione "commercio equo e solidale", i cui valori ispiratori – si noti – sono impregnati di ideologia premoderna. Rilevano infatti Rosenberg e Birdzell, a proposito dell'economia medievale: "L'ideologia del sistema era compendiata dalle espressioni "giusto prezzo" e "giusta paga". Prezzi e paghe corrispondevano ad un giudizio morale del valore. Domanda e offerta erano irrilevanti da un punto di vista morale. La concezione moderna di prezzi e salari, intesi come strumenti concreti per il funzionamento dei mercati e per l'allocazione delle risorse, che non implica alcun giudizio morale, verrà molto tempo dopo" (pp.58-9). Cfr. anche Kohlhammer p.777.
[340] Iraci Fedeli mette ad esempio in rilievo la stridente contraddizione tra i due argomenti-cardine degli immigrazionisti, che abbiamo incontrato nell'§1 (a rigore, il paralogismo si ha solo quando – e mi pare succeda spesso – la stessa fonte se ne avvalga contemporaneamente): "I fautori dell'immigrazione non si sono certo preoccupati di svolgere coerentemente i loro – se così li possiamo chiamare – argomenti. Certo, l'affermazione, stucchevolmente ripetuta, che i paesi sviluppati (e chissà perchè proprio l'Italia, afflitta da enorme disoccupazione?) darebbero prova di solidarietà internazionale aprendo le porte ai "poveri dei paesi poveri", contrasta con la pretesa che l'immigrazione sarebbe necessaria, negli interessi della società italiana" (1990, p.43; si veda anche 2000, p.83)
[341] Similmente Montanelli, citato da Afeltra: "Io trovo Guicciardini di una chiarezza trasparente. Nel linguaggio del suo tempo, questo è ovvio. Io non credo che i grandi scritto i siano ermetici. Nel loro linguaggio sono completamente chiari. Io non credo agli oscuri. Nell'oscurità io annuso sempre l'imbroglio, la pochezza intellettuale e la viltà".
[342] Libro 1, vv.638-644, pp.40-2 dell'edizione utilizzata. La traduzione di Olimpio Cescatti suona:
Eraclito (…), lui che l'oscuro linguaggio ha reso illustre tra i greci, ma più presso pazzi senza cervello che presso spiriti equilibrati e amanti della verità. Gli sciocchi ammirano e amano di preferenza tutto ciò che credono di distinguere dissimulato sotto termini ambigui, e tengono per vero ciò che accarezza piacevolmente l'orecchio e si presenta tutto imbellettato da stuzzichevoli sonorità.