5 Conclusione
Il libro che Luciano Gallino ha recentemente dedicato alla questione della disoccupazione presenta – nonostante più di 50 anni li separino – numerose analogie con il saggio di Polanyi: oltre alla passione civile della quale è intriso e la suggestività dello stile, il fatto di essere scritto in un momento di rivoluzione degli assetti socioeconomici, di paventarne le conseguenze con un rimpianto appena velato dalla sostanziale consapevolezza dell'impossibilità di invertire la direzione di marcia delle trasformazioni in atto[1]. Il risultato è appunto una linea di conservazione flessibile, incanalare la trasformazione per controllarla ed attutirne gli effetti negativi.
Trascurando le ovvie differenze tra due opere scritte in contesti così distanti, vorrei sottolineare una diversa sfumatura affettivo-valoriale che mi pare rappresentativa dell'arco di atteggiamenti degli avversari dei sovvertimenti sociali causati dalla tecnologia. A queste posizioni vengono dedicati i prossimi due paragrafi.
5.1 Polanyi e la paura del Golem
Il Golem della tradizione ebraica è il mostro che si sottrae al controllo del proprio creatore. L'attitudine a temere il gorgo autodistruttivo in cui l'umanità può essere trascinata dalla propria arroganza è sempre stata diffusa: non mancano illustri riferimenti nella tradizione e nella letteratura (dalla Bibbia a Frankenstein); oggi che la tecnologia ha accentuato il potenziale di hybris della specie umana, questa è componente importante di molte posizioni culturali e politiche – riguardo per esempio la ricerca scientifica o il mito di una natura benigna (su questi temi cfr. Furcht 1997, par. 2.3). Le utopie negative del nostro secolo, dal Grande Fratello di 1984 a Fahrenheit 451, da Metropolis alle livide città popolate da turbe di emarginati di ogni provenienza evocate in Blade Runner o Nirvana, hanno certo contribuito a modellare le caratteristiche specifiche della paura che oggi si ha del cambiamento.
Penso che questo atteggiamento racchiuda una delle principali radici psicologiche de La grande trasformazione, e probabilmente anche del suo fascino: indicativi i titoli delle due sezioni nelle quali si articola la seconda parte: "Macchinari satanici" (Satanic Mills), cui segue "L'autodifesa della società".
La sorta di Santa Alleanza che Polanyi sembra invocare, almeno retrospettivamente, contro la modernizzazione[2] (identificata nella mercificazione della natura e del lavoro, e nel miope economicismo che le avrebbe accompagnate) non è che la logica conseguenza di tali premesse: se il male peggiore è la catastrofe della disgregazione indotta da un'innovazione sfrenata, allora ben venga l'unione tra i difensori del vecchio ordine e le classi più deboli[3].
L'interesse per noi de La grande trasformazione sta in questa linea programmatica, nell'espressione radicale un atteggiamento che nei decenni si è probabilmente rafforzato: il rifiuto della modernizzazione, sociale prima ancora che tecnologica[4]. Devo dichiarare apertamente di sentirmi assai lontano da questa impostazione, sebbene ne riconosca la nobiltà delle intenzioni e l'opportunità di un richiamo al governo del cambiamento (cfr.5.3). Mi pare però che anche in questo caso[5] la paura del Golem induca vistosi errori di valutazione, in particolare l'acritica indulgenza con la quale Polanyi giudica l'epoca (le epoche, anzi) preindustriale[6]. Ha qui buon gioco la critica di Hartwell (cfr. soprattutto il cap.Xº), diretta contro i molti che, in odio alla Rivoluzione industriale "costruirono un modello ideale di un passato immaginario e alla luce di esso denigrarono tutto ciò che era moderno", dando credito, alla "leggenda di una settecentesca età dell'oro" (p.325). Certo Polanyi – che nei capp.IVº e XIIIº si sofferma sulle società arcaiche – inorridirebbe alla vista di quanto Hartwell scrive un po' en passant: "Per dottori e stregoni aborigeni l'industrializzazione significa rovina; non fa meraviglia quindi la loro opposizione spesso implacabile" (p.36, vedi anche p.45). Se questo è vero, le élites ostili al cambiamento verrebbero brutalmente retrocesse da custodi, per quanto involontari, degli interessi generali a retrivi difensori di privilegi di casta a scapito della collettività. Riconosco di interpretare proprio in questa chiave molte resistenze alla modernizzazione – prima tra tutte il rafforzarsi degli integralismi religiosi, in particolare nei paesi in via di industrializzazione.
5.2 Gallino e il lavorismo
Anche in Gallino può essere presente il timore per un futuro incontrollabile, ma si compendia in una difesa della valenza sociale del lavoro quale è stata riconosciuta finora; un'opposizione solo apparente ad uno dei pilastri della tesi di Polanyi, che afferma in più punti che la trasformazione in merce del lavoro, delle risorse naturali e della moneta abbia causato le catastrofi sociali di cui al 4.2.
Secondo Gallino, infatti, le prospettive innescate dall'informatizzazione crescente della produzione, ed in particolare dalla telematica (col suo corollario della globalizzazione), sono una minaccia mortale per la società che verrà colpita nel suo collante, appunto il lavoro. In un passaggio-chiave egli espone il postulato senza il quale le sue preoccupazioni per la futura società dei quattro quinti (di disoccupati) sarebbero notevolmente ridimensionate: "Quanto agli effetti della disoccupazione, i peggiori non discendono forse dalla inattività (…). Ma assai più dalla caduta di quel fondamentale senso di essere in una relazione vitale e reale con altri uomini che un uomo avverte non altrimenti che nel denaro ottenuto mediante il proprio lavoro. Nessuno ha saputo descrivere l'insostituibile valore simbolico del denaro meglio del sociologo tedesco Georg Simmel (…)" (Gallino p.67)[7]. Ne discende la conclusione in termini di obiettivi per la politica (p.78), non priva di toni taglienti: "A modo suo, quella che il saggio di De Masi [Sviluppo senza lavoro, Edizioni lavoro, Roma, 1994] lascia trapelare è l'immagine di un'altra società dei quattro quinti, dove un quinto continua a lavorare per pura dissennatezza, una forma endemica di patologia mentale, mentre tutti gli altri si beano nell'ozio – il quale sarà, inutile ripeterlo, creativo – reso possibile dalla tecnologia. Malauguratamente, la società dei quattro quinti così concepita non è nemmeno un'utopia efficace nell'orientare le azioni al fine di realizzarla in futuro. è una figura che (…) distoglie attenzione ed energie dal compito fondamentale di elaborare una politica dell'occupazione e della qualità del lavoro a lungo termine. Per evitare il rischio che la società che ci attende sia formata in gran maggioranza non già da oziosi intenti a leggere i classici nei loro giardini fioriti, bensì da milioni di individui ai quali la mancanza di lavoro, la precarietà, la povertà, l'insicurezza, l'esclusione hanno sottratto il maggiore dei beni: «null'altro che» il desiderio, la capacità morale, e la possibilità reale di condurre una vita dal volto umano." Mi pare insomma che Gallino aderisca – non per cieca mistica del lavoro, bensì sulla base di riflessioni sulle conseguenze sociali della disoccupazione indotta dall'innovazione tecnologica – ad una sorta di ideologia che per brevità possiamo chiamare "lavorismo". Essa è d'altronde molto diffusa: era questo probabilmente un tratto in comune ai capitalisti del passato[8] e ai loro avversari socialisti, e la ritroviamo solennemente affermata nel primo articolo della Costituzione repubblicana. Si tratta probabilmente di un elemento costitutivo della mentalità del nostro tempo, tanto che ci meraviglia fosse sostanzialmente assente nell'evo antico.
5.3 Governare il cambiamento
Non penso che nessuno si dolga all'idea che i lavori più duri vengano man mano delegati all'automazione[9]. L'immobilismo in questo campo porta a difendere attività lavorative inutili o dannose per la collettività, ad esempio quelle inquinanti; ci sarebbe spazio per altre, assai più positive dal punto di vista del benessere sociale: alcune ad alto contenuto tecnologico (quali disinquinamento, biotecnologie, produzione di software) altre a maggiore intensità di lavoro[10] (servizi alla persona, attività ricreative). Questo per tacere della considerazione fondamentale: se la tecnologia alzerà la produttività, la torta da spartire (tra tutti, meccanismi di solidarietà compresi) sarà comunque più grande.
La tesi che gli sviluppi della tecnologia possano riservarci enormi vantaggi non esclude affatto che, in un altro senso, gli avversari di questa trasformazione (come di quelle passate) non possano avere la loro parte di ragione nell'indicarcene i rischi. Si tratta di una questione di prospettiva, ciò che va bene nel lungo periodo può comportare gravi sofferenze nel medio-breve, che è poi quello che sta più a cuore a tutti[11]: la sostanza di questo paradosso sta nella difficoltà dei periodi di passaggio, quasi un'evidenza se si guarda alla storia[12].
è sicuramente compito della politica amministrare questa transizione, conciliando le esigenze spesso opposte (cfr. 4.2, punto 4) di produrre ricchezza e assicurare a tutti buone condizioni di vita. La via di uscita può essere, come suggerisce Amendola a proposito del mercato del lavoro (in ottica a dire il vero piuttosto protezionistica[13]): "definire il mix ottimale di regolamentazione (…) che permettano di coniugare obiettivi di equità con più significativi livelli di efficienza allocativa " (p.143).
Più in generale, il buon senso suggerisce gradualità per contemperare trasformazione e garanzie (che normalmente spingono in senso contrario al cambiamento). Non è però detto che governare il cambiamento significhi, come suggeriva Polanyi, ostacolarlo; potrebbe invece essere il caso di imprimervi un'accelerazione[14]. Può darsi che questa volta la lungimiranza (se ci sarà) debba spingere in senso opposto al senso comune: è evidentemente impossibile esprimere qui un giudizio a priori che non sia una semplice raccomandazione a privilegiare le difese "attive" dei più deboli: alfabetizzazione informatica, riqualificazione professionale, ricerca di impieghi utili del lavoro da riallocare.
Vi è una seconda insidia, che una sciocca idolatria del mercato può portare a sottovalutare: se è vero che la corruzione prospera nelle burocrazie, è anche vero che può trionfare con la deregolamentazione incontrollata – basti pensare a quanto succede nell'ex-Unione Sovietica. Con la flessibilizzazione devono perciò essere anche introdotti i necessari correttivi per contrastare reati da colletti bianchi, quali il crimine finanziario e le frodi (si pensi a quelle relative alla sanità, all'alimentazione o all'ambiente) – che potrebbero venire incoraggiate in un regime di liberismo ingenuo, se non addirittura in malafede. Si tratta di una questione decisiva: la grande criminalità è già oggi un grande pericolo per l'umanità, non è ammissibile concederle ulteriore spazio; un'economia più libera ed efficiente non deve divenire acqua per fare sguazzare i pescecani: le regole occorrono – poche forse, ma severe.
5.4 Prospettive per il futuro
Se esiste una figura socioeconomica che può incarnare l'illuministico "interesse generale", si tratta di quella del consumatore. Questa è tuttavia anche la più negletta: il mondo politico, assecondato in questo dall'opinione pubblica, è sempre stato molto più sensibile agli interessi dei produttori (imprenditori e lavoratori); possiamo interpretarlo come un lascito della mentalità lavoristica, anche se decisiva è stata la circostanza che tali interessi siano molto meglio organizzati[15]. Da questo deriva presumibilmente la protezione della quale solitamente godono le diverse categorie economiche nei confronti di un generico e soprattutto mal rappresentato interesse generale[16]. In questo discorso possono probabilmente rientrare i sussidi all'industria, il finanziamento pubblico di oneri relativi al mercato del lavoro, l'addossamento alla collettività di costi nascosti quali quelli ambientali (favorita dalla mancanza nel passato di scelte strategiche, a favore ad esempio del trasporto collettivo) o addirittura i sospetti tentativi di copertura di gravi frodi quali quelle alimentari.
Questo stato di cose è forse un po' migliorato negli ultimi anni, ma ancora molto deve succedere: il progresso tecnologico sta cambiando i rapporti di forza, perlomeno sul piano economico – alcuni dei fattori che metteranno in difficoltà lavoratori e imprenditori (ad esempio la trasparenza e la globalizzazione) si traducono infatti in immediati vantaggi per l'acquirente. Lo rileva, tra i molti, Penzias ("l'informazione sarà molto più pervasiva e comprensibile di quanto non sia ora. Di conseguenza, il potere del consumatore diventerà enorme"). Anche chi è coinvolto nel processo di produzione potrebbe recuperare come consumatore buona parte di quanto rischia di perdere sul fronte del mercato dei fattori di produzione. Questo dovrebbe verificarsi innanzi tutto sul piano strettamente economico del livello dei prezzi – scrive al proposito Di Stefano (cfr. anche Camussone pp.38 e 54): "L'information technology è stata determinante anche nel contenimento della dinamica inflattiva, al punto che diversi analisti sostengono che la battaglia contro l'inflazione è stata vinta proprio grazie allo sviluppo dell'economia digitale. Senza l'IT i prezzi negli Stati Uniti oggi crescerebbero ad una media annua superiore al 3 per cento, contro un tasso attestato all'1,9 per cento. Molti sono i fattori che hanno contribuito a questa vera e propria svolta nelle dinamiche macroeconomiche, permettendo una forte crescita dell'economia e produttività statunitense senza quella fiammata inflazionistica più volte paventata dal presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan: il crollo dei costi delle comunicazioni, il forte incremento delle prestazioni tecnologiche dei mezzi di trasmissione, la continua innovazione industriale. (…) la verità è che l'utilizzo di Internet nei sistemi aziendali sta producendo enormi risparmi in termini di gestione di fornitori, reti commerciali, canali di vendita, logistica, pagamenti, scorte, approvvigionamenti. Senza contare l'abbattimento dei prezzi di prodotti e servizi come la compravendita di azioni o l'acquisto di biglietti aerei, hardware, software, libri e cd.".
Possiamo anche aspettarci un'esistenza meno condizionata dalla persuasione, occulta ma martellante, della pubblicità – che sta cedendo il passo a servizi interattivi di informazione su richiesta dei consumatori, destinatari di prodotti non più massificati ma al contrario confezionati senza aggravio di costi sulle esigenze individuali. Le sorti magnifiche e progressive di un'umanità liberata dagli aspetti deteriori del consumismo verrebbero completate da una maggiore possibilità di partecipazione diretta alla gestione della cosa pubblica: oltre al maggiore tempo libero prevedibilmente a disposizione dei singoli, che può essere dedicato anche alla politica, Internet può restituire anche a collettività estese una dimensione di polis[17].
Questi scenari ci avvicinano alle utopie liberaldemocratiche di una società con meno lavoro, evocata da Fuà (p.31): "In questa ipotesi [diversa in realtà dalla nostra, quella cioè della stabilità demografica che potrebbe innescare uno "sviluppo capitalistico qualitativo"] la quota delle energie umane complessive che viene assorbita dalle attività di mercato, dopo essere prodigiosamente cresciuta in connessione con lo sviluppo economico moderno, torna a ridursi. Si libera un margine di energie che un'ipotetica umanità divenuta saggia [speriamo] potrebbe dedicare alla ricerca di un migliore equilibrio con l'ambiente naturale e all'interno della società e – come diceva Mill [1848, libro 4 cap.6] – «to cultivate freely the graces of life», a coltivare liberamente quelle attività che adornano la vita. Questo è il tipo di scenario vagheggiato appunto da J.S.Mill, ma anche da vari altri economisti tra cui Keynes [1930]"[18]. Ma si veda soprattutto il breve saggio di Bertrand Russell Elogio dell'ozio: "La tecnica moderna [scrive nel 1937] consente che il tempo libero, entro certi limiti, non sia una prerogativa di piccole classi privilegiate, ma che possa essere equamente distribuito tra tutti i membri di una comunità. L'etica del lavoro è l'etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi (...) L'ozio è essenziale per la civiltà e nei tempi antichi l'ozio poteva essere garantito soltanto dalle fatiche di molti. Tali fatiche avevano però un valore non perché il lavoro sia un bene, ma al contrario perché l'ozio è un bene. La tecnica moderna ci consente di distribuire il tempo destinato all'ozio in modo equo, senza danno per la civiltà. La tecnica moderna infatti ha reso possibile di diminuire in misura enorme la quantità di fatica necessaria per assicurare a ciascuno i mezzi di sostentamento. " (pp.13-4). E poi, sul punto centrale della morale corrente incentrata più sulle intenzioni che sulle conseguenze (p.15): "... coloro che hanno un lavoro lavorano troppo, mentre altri muoiono di fame senza salario. Perché? Perché il lavoro è un dovere e un uomo non deve ricevere un salario in proporzione a ciò che produce, ma in proporzione della sua virtù che si esplica nello zelo. Questa è l'etica dello Stato schiavistico, applicata in circostanze del tutto diverse da quelle che le diedero origine. Non c'è da stupirsi se il risultato è stato disastroso".
Ciò che questi classici possono insegnarci dal loro giardino fiorito è che, seppure ad alcune non facili condizioni[19], anche questa ondata di progresso tecnologico migliorerà la vita degli esseri umani, come fu con le precedenti. Certo, il progresso ha le sue insidie: quelle prettamente tecnologiche sono un problema anche di politica della conoscenza, e vengono spesso risolte con l'ausilio di una maggiore, anziché minore, ricerca (si pensi ai danni ambientali). Le difficoltà sociali sono invece legate soprattutto alla transizione: un punto nodale e forse doloroso atterrà alla ridefinizione culturale del lavoro; l'adozione coerente dell'etica della conseguenza deve portare, come suggerisce Russell nella sua requisitoria contro il lavorismo, a remunerare il risultato anziché l'intenzione (indicativa della mentalità corrente mi pare l'espressione "sforzo" usata da Amendola, cfr. nota Errore. Il segnalibro non è definito.).
Il mondo che ci attende potrebbe essere allora più efficiente e razionale e proprio per questo (a differenza di quanto suggerisce l'opinione comune) più umano: potremo dedicarci maggiormente ai nostri affetti ed interessi; i grandi guadagni in termini di risorse, anche di tempo disponibile, costituiranno la riserva cui attingere per garantire i più deboli; può darsi infine che nella formula oggi tradizionale del lavoro – dipendente, a durata indeterminata e a tempo pieno – i nostri nipoti troveranno probabilmente, oltre che la radice di sprechi di tempo e risorse, anche qualcosa di insano anche dal punto di vista psicologico.
[1] Anche se l'ultimo capitolo del Polanyi, in contrasto con quelli precedenti, sembra improntato a toni di speranza.
[2] Oltre a quanto citato nel 4.2, cfr. ad esempio pp.213 e 236-7.
[3] Al proposito nota Hartwell: "I tradizionali denigratori inglesi della rivoluzione industriale sono sempre stati radicali tory o socialisti fabiani, i primi stimolati all'opposizione al progresso dei whig, gli altri dalla diretta osservazione delle condizioni degli operai inglesi" (p.327).
[4] Scrive a p.210: "Separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi del mercato significava annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo diverso di organizzazione, atomistico ed individualistico. Un simile schema distruttivo era ottimamente sostenuto dall'applicazione del principio della libertà di contratto. In pratica questo significava che le organizzazioni non contrattuali della parentela, del vicinato, della professione e del credo dovevano essere liquidate poiché richiedevano l'obbedienza dell'individuo limitandone così la libertà". L'analisi di questo aspetto della modernizzazione è d'altronde stato uno dei temi portanti nella storia della riflessione sociologica.
[5] Cfr. Furcht 1997 per un'applicazione al caso della modernizzazione intesa come controllo sulla natura.
[6] Afferma per esempio che "di regola l'individuo nella società primitiva non è minacciato dalla fame a meno che la comunità nel suo insieme non si trovi in una situazione di questo tipo", dimenticandosi però poi, nel turbine di citazioni ndi antropologi, di sottolineare che questa è un'eventualità tutt'altro che remota: "Nel sistema del kraal presso i kaffir, ad esempio, «la miseria è impossibile: chiunque abbia bisogno di assistenza la riceve senza alcuna riserva» [L.P. Mair, An African People in theTtwentieth Century, 1934]. Nessun kwakiutl «ha mai corso il rischio di soffrire la fame» [E.M. Loeb, The Distribution and Function of Money in Early Society, in Essays in Anthropology, 1936]. «Non vi è fame nelle società che vivono sul margine della sussistenza» [M.J. Herskovits, The Economic Life of Primitive Peoples, 1940]. Il principio della libertà dalla necessità è stato ugualmente riconosciuto nella comunità del villaggio indiano e, potremmo aggiungere, in quasi ogni tipo di organizzazione sociale fino circa all'inizio del sedicesimo secolo in Europa (…). è l'assenza della minaccia della fame individuale che rende la società primitiva in un certo senso più umana dell'economia di mercato ed allo stesso tempo meno economica" (pp.210-1).
[7] Confutando le tesi della Méda aggiunge (pp.74): "Da dove provengono infatti i rischi di dissoluzione? Forse dal primato inconsulto del lavoro che spinge in secondo piano la politica, o non piuttosto dal fatto che determinati valori primari i quali sono realizzabili, in concreto, principalmente tramite il lavoro non sono adeguatamente tutelati dalla politica?"; e poi (p.75): "Si dovrebbe altresì riconoscere che, lungi dall'aver eccessivamente caricato la barca del lavoro, come afferma l'autrice, abbiamo lasciato che si riempisse di troppi buchi. Molti, per sopravvanzo, li abbiamo praticati di proposito. Attraverso di essi il lavoro fuoriesce, mentre entrano nella barca i flutti della disoccupazione a lungo termine. Se la barca affonda, non sarà soltanto il valore del lavoro che – a quanto affermano questi discepoli di Pangloss – è stato stolidamente caricato su di essa che verrà finalmente sommerso; bensì anche la libertà e l'eguaglianza, la giustizia sociale e i diritti di cittadinanza nella polis della tecnologia."
[8] Non però agli economisti liberali, la cui impostazione è quella che viene bollata come "mercificazione del lavoro". Polanyi (p.227) cita con scandalo Mises "Non è venuto in mente a nessuno che mancanza di salario sarebbe un termine migliore di mancanza di lavoro poiché ciò di cui il disoccupato sente la mancanza non è il lavoro ma la remunerazione del lavoro" e un suo lontano precursore, il vescovo Whately: "Quando un uomo chiede lavoro, non chiede lavoro ma salario". Questo è d'altronde il fondamento del tradizionale approccio economico all'offerta di lavoro (ma certo "il tempo è denaro" non è un'invenzione dei capitalisti; sul retro di un pacchetto di fiammiferi, ad esempio, trovo la seguente citazione di Teofrasto: "Il tempo è la cosa più preziosa che un uomo possa spendere"). In questo spirito si inquadra anche il più moderno filone di teorie microeconomiche sul trade-off tra tempo libero e salario (si veda ad esempio Becker, Una teoria dell'allocazione del tempo). Per conto mio mi chiedo come mai, se non per ritirarsi dall'attività lavorativa, così tanta gente paghi premi altissimi in termini probabilistici per poter vincere una fortuna alle lotterie.
[9] Anche Gallino accenna agli "straordinari vantaggi che la tecnologia offre al presente per rendere il lavoro fisicamente più leggero e mentalmente più ricco", beninteso "a fronte della crescente probabilità di venire, da tali vantaggi, drasticamente esclusi" (p.75).
[10] Lo stesso Gallino (si veda la nota Errore. Il segnalibro non è definito.) dedica la parte finale del suo libro ad una serie di proposte – tra l'altro estremamente interessanti – concepite per elevare l'occupazione, ma che determinerebbero anche un sostanziale miglioramento del benessere pubblico grazie ad una razionale riallocazione del lavoro in un contesto universale di maggiore efficienza: un implicito riconoscimento delle potenzialità positive della rivoluzione informatica.
[11] Keynes è forse più spesso ricordato per la battuta: "Nel lungo periodo saremo tutti morti" che non per le sue teorie economiche.
[12] Si veda ad esempio l'interpretazione della rivoluzione industriale di Cunningham [The Growth of Industry and Commerce in Modern Times, Cambridge, 1925], in Hartwell pp.65 e 318-9.
[13] Lo scopo sarebbe solo quello "di conseguire risultati migliori in termini di occupazione". Il richiamo di Amendola è a Gregg e Manning, Labour Market Regulation and Unemployment, 1994.
[14] Lo suggeriscono ad esempio Filippazzi e Occhini per arrivare prima nella fase di creazione di posti di lavoro (p.76). Sia loro che Biffi e Camussone fanno però un'opportuna professione di prudenza rispetto agli effetti finali del processo di modernizzazione, cfr. pp.74 e 97.
[15] Il fenomeno è naturalmente molto antico (basti pensare alle corporazioni medievali). Nel 1957 Popper includeva, tra i suoi esempi di "leggi o ipotesi sociologiche": "In una società industriale la pressione del compratore non potrà mai essere organizzata con tanta efficacia quanto quella di certi produttori" (p.66).
[16] Non entro nel merito della questione se in Italia tale interesse generale sia particolarmente poco sentito.
[17] Cfr. l'articolo di Mandò e l'intervista a Cicciomessere (senza autore 1999a).
[18] I testi cui Fuà fa riferimento sono:
James Stuart MILL, Principles of Political Economy, Londra (VIª edizione, ristampa 1900).
John Maynard KEYNES, Economic Possibilities for Our Grandchildren, in «The Nation and Athenæum», 11 e 18 ottobre 1930.
[19] Tra le principali: se sapremo sconfiggere la criminalità, anche quella organizzata; se si riuscirà a distribuire con un po' di equità il privilegio del lavoro (che è anche un onere: qui la razionalità dell'homo œconomicus potrebbe venire in aiuto, cfr. nota 8); se troveremo un equilibrio accettabile tra produzione e ridistribuzione della ricchezza.