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Di immigrazione si è detto e scritto molto in Italia, dalla fine degli anni '80 in poi. Negli ambienti accademici e dell'impegno sociale sono state espresse posizioni di apertura spesso estrema, non tanto sul tema dell'opportunità in sè delle entrate, quanto su aspetti quali la desiderabilità delle sanatorie, il ruolo delle "culture", l'essenza del razzismo, la necessità e la generosità delle politiche di accoglienza, le presunte colpe delle società "opulente" nella povertà mondiale; si sottacevano invece i risvolti negativi di un'immigrazione sostanzialmente incontrollata. Ben altri atteggiamenti, nel frattempo, montavano nell'opinione pubblica: in luogo della retorica della solidarietà, un sentimento di ostilità indiscriminata, gretto e spesso inconfessato[1].
Quello dell'immigrazione è argomento complesso: è sicuramente ingenuo credere che torto e ragione siano nettamente separati tra le due posizioni contrapposte dell'aperturismo e della chiusura assolute[2]. I fatti dell'11 settembre 2001, inoltre, hanno conferito alla questione una drammaticità prima impensabile: questo mi ha indotto ad ampliare lo spazio già dedicato in una versione precedente di questo lavoro[3] alla questione del terrorismo. Anzi, il principale motivo che mi ha spinto a lavorare in profondità su queste pagine è legato proprio a tale questione: vi sono momenti nei quali tacere è una sorta di viltà civile. Oggi è importante che ognuno, secondo le sue opinioni e nell'ambito delle proprie possibilità, contribuisca a un dibattito che da curiosità intellettuale sta vestendo i panni dell'assoluta urgenza, quella della storia che accelera – e che in questi casi usa scandire giorni poco felici per l'umanità. A me è parso ancora più importante perchè temo – è bene dirlo subito – che l'opinione pubblica europea stenti a rendersi conto di essere di fronte ad una svolta storica, gravida di terribili minacce; e se anche se ne rende conto (dopo l'11 marzo madrileno ne è stata quasi costretta) resta prigioniera di tic mentali assolutamente deleteri.
Dubito che qualcuno, tanto meno non lo scrivente, possieda il dono dell'obiettività assoluta: anzi, troverei ipocrita ammantarmi di una neutralità "scientifica" che sarebbe poco indicata ad un momento di scelte importanti. Tanto meno possiedo quello della conoscenza integrale della verità (se pure questa esiste). Ma, per dirla con Hume[4]: "... i nostri dubbi ed errori (...) possono perfino mostrarsi utili, col sollecitare l'attenzione e col distruggere quella fede implicita e quella sicurezza che sono il veleno di ogni ragionamento e di ogni libera ricerca".
Il mio sforzo sarà dunque quello di mostrare, partendo dall'immigrazione per arrivare a temi quali criminalità e terrorismo, come alcuni dei luoghi comuni abbiano fatto torto al buonsenso; dedico quindi un approfondimento particolare, in Appendice 2, ad una delle fonti principali di questi dannosi stereotipi, il "politicamente corretto"; tralascio invece la pur rilevante questione del razzismo, per la quale rimando a Furcht 1993 e Furcht 1998 (si vedano anche Iraci Fedeli 1990, cap.II, e gli scritti di Melotti).
La versione a stampa di questo lavoro è stata tagliata per esigenze di leggibilità: quella integrale appare però sul web[5], densa di note pensate per farne più uno strumento di documentazione (a cavallo tra una rassegna di argomenti e una bibliografia ragionata, per quanto inevitabilmente lacunosa), che non una dissertazione su argomenti dotti.
[1] Gli intellettuali progressisti, lungi dal ricoprire il luogo di avanguardia per la pubblica opinione, rischiano su questo tema di avere la stessa forza di convinzione dell'irruente lord Uxbridge a Waterloo (da Fair, pp.353-4; il passo è già riportato in Furcht 1994, p.246): "Pare che Uxbridge fosse per natura piuttosto avventato. Nei pressi di Quatre-Bras si era precipitato fuori dalle sue posizioni per andare incontro ad alcuni squadroni che si stavano avvicinando, solo per scoprire all'ultimo minuto che erano francesi. Più tardi, a Waterloo, si mise alla testa di un contingente di cavalleria olandese, ordinò una carica e si slanciò a galoppo sfrenato verso il nemico. Il suo aiutante di campo lo raggiunse appena in tempo per informarlo che gli olandesi non l'avevano capito, e che stava caricando in perfetta solitudine". Tra le eccezioni, molte presenti in bibliografia, va ricordata Fiamma Nirenstein, che già nel 1990 ammoniva su questi rischi: "… abbiamo istintivamente optato per ciò che ci dettava il senso di colpa, ovvero l'assimilazione culturale e sociale di singoli immigrati. Così è nata, a suo tempo, la proposta di assegnare il 15 per cento degli alloggi popolari agli immigrati, si è lasciato che il commercio abusivo mettesse radici, e soprattutto si lasciato che la mente fantasticasse su società multietniche e pluriculturali, senza neppure sapere bene di che cosa si stava parlando. La politica discuteva, chiacchierava, si autocompiaceva del suo umanitarismo, mentre crescevano il malcontento e il razzismo" (p.25).
[2] Mi sembrano ben ponderate le parole di Eugenia Roccella (p.24): "… le idee dominanti si sono solidamente ancorate a stereotipi contrapposti. Da un lato una parte del mondo cattolico e i partiti comunisti e postcomunisti sostengono la tesi (che consente l'incontro fra l'universalismo degli uni e il terzomondismo residuale degli altri) di un paese ad apertura non selettiva, che eviti il più possibile di governare i flussi migratori. All'estremo opposto la Lega, e talvolta alcuni esponenti di An, danno voce all'insofferenza di chi si sente minacciato nella sicurezza, nel sentimento di identità nazionale, culturale o religiosa, nel lavoro o nelle garanzie del welfare, e chiede un paese meno aperto. Lo "straniero", da noi, è ancora un'ombra poco identificata, una figura simbolica che infiamma ed esaspera la paura e le ideologie. Frontiere chiuse o aperte, razzismo e antirazzismo, multiculturalismo e difesa dell'identità sono questioni sottratte alla concretezza della politica e assunte come maschere ideologiche, feticci di schieramento a cui si sacrifica la ragionevolezza. Sembra difficile parlare di immigrazione senza affrontare le concrezioni concettuali che vi sono state costruite intorno, i nodi del politicamente corretto e le imbarazzanti verità del politicamente scorretto".
[3] Relazione inviata al convegno Lamerica – Ideologie e Realtà dell'Immigrazione (Teramo, marzo 2001).
[4] Ricerca sull'intelletto umano, p.32 dell'edizione utilizzata.