Andrea Furcht

Demografia, occupazione, delinquenza, terrorismo: terzomondismo e luoghi comuni sull'immigrazione

Parte 2 di 8




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§1 – Le migrazioni sono inevitabili?

 

Quando si parla di immigrazioni, anche (anzi, specialmente) gli utopisti più audaci diventano sconsolati assertori dell'ineluttabilità della Storia[6]: l'implicita professione di fede nell'operare di una "mano invisibile" è del tutto simile a quella dei liberisti più convinti, altrimenti oggetto dei loro strali.

Dallo squilibrato incremento della popolazione di molti paesi poveri si deriva la conclusione che le pressioni demografiche siano destinate a sfogarsi in epocali movimenti migratori compensativi, non arrestabili da provvedimenti dei governi; d'altra parte, la struttura della popolazione invecchiata[7] dei paesi ricchi renderebbe le migrazioni vantaggiose anche per i paesi di destinazione[8]. Si tratta di un'argomentazione molto diffusa[9] (anzitutto in chi propende valorialmente per le politiche di apertura[10]), che si basa in effetti sull'incontrovertibile evidenza di un aumento demografico mondiale concentrato nelle aree più arretrate. Eppure presenta numerosi punti di debolezza, come cercherò di mostrare nel prosieguo di questo paragrafo. Intendiamoci: la sovrappopolazione mondiale è intimamente connessa ai problemi più gravi che l'umanità deve affrontare in questo inizio di millennio. A questo proposito è però singolare constatare come chi più additi all'opinione pubblica le conseguenze socioeconomiche di questa impressionante progressione demografica tralasci poi di combattere il male alla radice: propugnare la causa di un contenimento radicale della fecondità nei paesi ove essa è troppo elevata sembra forse sconveniente[11]. Tale posizione è contigua a quella che considera le migrazioni come un risarcimento: ce ne occuperemo all'§1.4.


§1.1 Quale sovrappopolazione

Il pensiero demografico – o meglio, una sua importante componente – ammonisce fin dall'antichità sui pericoli della sovrappopolazione; quella di Malthus[12], tra Sette- e Ottocento, fu sicuramente la voce più celebre; non sono però mancati contributi ulteriori, che hanno rivisto il malthusianesimo alla luce degli sviluppi storici e scientifici, molti dei quali legati alla nascita del movimento ecologista[13]. I rischi per l'umanità sono altissimi: catastrofi climatiche, inquinamento, perdita di biodiversità, esaurimento delle risorse naturali (comprese alcune di quelle rinnovabili, se lo sfruttamento oltrepassa la capacità di rigenerazione). La causa immediata di questi danni non è la popolazione, bensì i consumi[14]: alla ricetta moralista[15] di abbattere i consumi pro-capite si contrappone lo sforzo di ricercare tecnologie eco-compatibili (si pensi in particolare al campo energetico, e a quello del riciclaggio), e soprattutto di limitare la popolazione[16].

In prospettiva storica, la posizione restrizionista (auspicare un contenimento della crescita demografica) è tradizionalmente associata all'utilitarismo[17], in quanto ha l'obiettivo di massimizzare le risorse pro-capite.

La posizione opposta, il popolazionismo[18], si è spesso associata a regimi militaristi: esiste tra l'altro un'antica ipotesi che ricollega alla sovrappopolazione anche il flagello della guerra[19] (non si dimentichi comunque che quello della sovrappopolazione era il pretesto principale accampato da nazismo e fascismo per la loro aggressività espansionista); altrimenti, il popolazionismo si è spesso associato al fondamentalismo religioso. Per i primi (dagli antichi romani ai fascisti, passando per i mercantilisti) era prevalente il desiderio di sostenere la politica di potenza; per il secondo, decisive le preoccupazioni relative alla sfera morale e sessuale, uno degli scacchieri decisivi nella resistenza alla secolarizzazione.

Il concetto di sovrappopolazione non è però univoco; se poi ne cerchiamo uno adatto all'interpretazione delle migrazioni, dobbiamo scartare quelli relativi al genere umano in quanto tale: abbiamo bisogno di qualcosa che caratterizzi differentemente le varie aree del pianeta, se vogliamo spiegare i flussi di popolazione tra di esse.

Il criterio più elementare è quello della densità, definibile come rapporto popolazione/superficie in un determinato territorio. Ma quello che può adattarsi bene alle popolazioni animali, ipotizzando magari un'uniforme distribuzione delle risorse sul territorio, spiega poco di quelle umane. è infatti il nostro continente, destinazione di molti immigranti, a soffrire di eccessivo affollamento: le conseguenze sono evidenti soprattutto in termini di degrado ambientale, in particolare nelle aree urbane o industriali, proprio dove l'immigrazione tende a dirigersi[20]..

Se prevedere movimenti compensatori sulla base della mera concentrazione abitativa appare un eccesso di zelo nei confronti della causalità di tipo demografico – una sorta di ingenua applicazione del meccanismo dei vasi comunicanti – un'alternativa più raffinata può basarsi sul ritmo del cambiamento: per esempio possiamo considerare l'incremento della popolazione, o persino la velocità di movimento di questo tasso[21], sulla base dell'ipotesi che per gli equilibri sistemici sia difficile adattarsi a bruschi sbalzi di velocità.

Un'interpretazione meno immediatamente demografica si riferisce invece alle condizioni dei singoli mercati del lavoro. Per spiegare le migrazioni di massa dai PVS[22], guardare alle differenze nei livelli salariali nei confronti dei PSA non sembra così utile quanto considerarne la disoccupazione. Si tratta in altri termini dell'eccesso di offerta di manodopera rispetto alla capacità di assorbimento del sistema produttivo locale: in questo senso l'argomentazione fatalistica (è impossibile fermare l'immigrazione dai paesi poveri) appare più convincente[23]. Perde però anche in purezza concettuale: se a questo punto consideriamo anche altri fattori, oltre la congestione interna del mercato del lavoro[24], dobbiamo ammettere che la presenza di disoccupazione non comporta automaticamente propensione all'emigrazione[25]. Si consideri infatti che tra l'emigrazione e le sue possibili cause strutturali, in primo luogo sovrappopolazione e povertà, agiscono numerose variabili intervenienti, quali la disponibilità di risorse per finanziare la partenza, la presenza di contatti e informazioni nel luogo di arrivo[26], il grado di integrazione nel circuito economico mondiale del paese di provenienza, l'intensità dell'attrazione anche culturale che i paesi di destinazione possono esercitare – per tacere di ostacoli, rischi e costi inerenti allo spostamento; per questi motivi le aree più arretrate del pianeta non sono (ancora) coinvolte nei grandi movimenti migratori, se non per via dei profughi che si riversano nei paesi confinanti[27].

Se la causalità diventa multifattoriale, aumenta il realismo dell'argomentazione; ma una complessità crescente ne sfuma il determinismo. Soprattutto, non si presta abbastanza attenzione al fatto che l'ipotesi della migrazione da sovrappopolazione è proprio quella che più si concilia con un'alta conflittualità tra immigranti e nativi, in quanto determinata più da fattori di espulsione che di attrazione[28]; si noti poi che il nostro paese, per quanto in corso di invecchiamento demografico, è caratterizzato non solo da densità eccessiva di popolazione ma anche da una disoccupazione relativamente elevata.

 

§1.2 La questione pensionistica

Si dice spesso che l'invecchiamento forzerà i paesi più ricchi a compensare il declino della popolazione lavorativa, e soprattutto quello del rapporto tra attivi e non attivi, con l'immigrazione di popolazione straniera giovane. Una minoranza, peraltro nutrita, di osservatori concorda sul fatto che tale operazione sia controproducente – se non addirittura impossibile, se non al più come correttivo parziale – per i proibitivi costi sociali e politici che ne risulterebbero: si vedano ad esempio – oltre La Malfa, Magli e Sartori, già menzionati nell'§1.1 – Tapinos pp.188-9 (che cita Zlotnik, Wattelaret e altri), la Repubblica del 22 gennaio 2001 (che riporta uno studio dell'OCSE), De Marchi (per es. in Il successo di Le Pen in Francia), Roccella (p.25) e, con dovizia di argomenti demografici, Gesano e Vitali (cfr. anche Pugliese, che unisce obiezioni di principio dettate dal senso di equità verso gli immigrati); Melotti e Iraci Fedeli si chiedono inoltre se la situazione sarà politicamente gestibile nel futuro[29].

Vale comunque la pena di riflettere su alcune questioni di fondo:

a.       cominciamo con la constatazione un po' ovvia che i lavoratori di oggi saranno i pensionati di domani[30] (sempre che le pensioni continuino a venire erogate): di conseguenza, l'immigrazione come innesto demografico di forza-lavoro può rivelarsi un rimedio effimero, a meno di cambiamenti rilevanti di scenario (riguardanti la fecondità, la sopravvivenza o il mercato del lavoro: su alcuni di questi torneremo nei punti seguenti); importante naturalmente sapere a quale titolo l'immigrazione debba avvenire: se di presenza temporanea oppure di insediamento definitivo – con la duplice conseguenza di un contributo alle nascite del paese di destinazione[31] e, per contro, del trattamento previdenziale previsto in un secondo tempo[32];

b.      il vantaggio contributivo deriva solamente dall'entrata di regolari e, in misura minore rispetto alla lunghezza effettiva del soggiorno, dai regolarizzati ex-post;

c.       tale vantaggio può venire ridimensionato dai ricongiungimenti familiari: non tanto da quelli dei minori (vedi però nota 31), quanto da quelli di donne non inserite nel mercato del lavoro e di anziani, che beneficerebbero se non di pensioni, almeno di altre forme di assistenza (ad esempio, quella sanitaria)[33];

d.      chiamare lavoratori nei momenti di incremento dell'occupazione può significare doverli licenziare alle prime avvisaglie di crisi[34] – sempre si voglia intendere l'immigrazione come senz'altro vantaggiosa per l'economia del paese d'arrivo;

e.       ancora sui punti c e d: si sottolinea sovente quanto sia inumano trattare i lavoratori immigrati come un ammortizzatore congiunturale di cui sbarazzarsi nelle fasi discendenti del ciclo economico, oppure negare loro i ricongiungimenti familiari, o ancora rifiutare ad essi o ai loro congiunti le prestazioni di Welfare. Questo è giusto, tuttavia tali richiami vengono di solito effettuati dopo averne caldeggiato un ingresso massiccio; di tutto questo è bene invece tenere conto ex-ante, in sede di valutazione dei pro e contro derivanti dall'immigrazione;

f.       alle migrazioni esistono alternative (cfr. il §2.3);

g.       un'ulteriore crescita dei tassi di attività femminili – favorita dalla maggiore elasticità di un futuro mercato del lavoro improntato a part-time e telelavoro – può abbassare il rapporto pensionati/lavoratori (si veda anche la nota 24);

h.      grandi incrementi di produttività potrebbero ridimensionare in futuro l'allarme-pensioni. Ma si pensi anche a vantaggi più specifici derivanti dal progresso tecnologico, che ridurrebbero tra l'altro la domanda di servizi personali, appannaggio soprattutto della manodopera immigrata: appunto il telelavoro, che faciliterebbe l'attività la cura di familiari bambini o anziani, o l'informatizzazione di molti aspetti della vita quotidiana (per es. la spesa on line), che inoltre renderebbe gli anziani più autosufficienti, o comunque minore l'impegno per accudirli[35];

i.        non sarebbe sorprendente, inoltre, se le prossime generazioni sperimentassero cospicui guadagni in termini di speranza di vita – cambierebbero così i termini del problema[36]. Se nei prossimi decenni l'umanità sperimenterà una rivoluzione in campo biomedico, è possibile vi siano ripercussioni non solo sulla longevità, ma anche sulla natalità: le donne potrebbero avere figli anche oltre i canonici 49 anni, con un conseguente ringiovanimento del nostre popolazioni – a meno che questa possibilità non si riveli una via per procrastinare ulteriormente la fecondità;

j.        più in generale, vale la pena di puntellare ostinatamente questo sistema di previdenza[37]? o difenderlo fino in fondo non comporta il pericolo di rovina economica per le generazioni a venire[38]?

k.      il trauma sociale provocato da un'immigrazione massiccia e prolungata, quale potrebbe essere a maggior ragione quello richiesto da una completa compensazione demografica (cfr. Gesano e Vitali), sarebbe assorbibile?

 

§1.3 Le politiche di protezione

La tesi dell'ineluttabilità ha un corollario sul piano delle politiche: tentare di contrastare direttamente le immigrazioni sarebbe inutile[39]; l'unica politica saggia – insieme alla rassegnazione – sarebbe dunque quella della prevenzione, da attuarsi mediante politiche di lungo respiro improntate alla giustizia redistributiva (si tace invece sul controllo delle nascite nei paesi poveri)[40]. L'argomentazione viene spesso estesa al crimine – si veda il §3.2 ed in particolare la posizione di Mascia in nota 164 – e addirittura al terrorismo[41], del quale ci occupiamo nel §3.3.

Nella maggior parte dei casi, questo assunto rappresenta solamente la razionalizzazione di un'avversione valoriale – o forse, solo emotiva – verso le politiche di controllo[42]. Certo la repressione in sè non piace se non a qualche cervello malato, così come di per sè non piacciono serrature, casseforti, assicurazioni, vaccini e cinture di sicurezza: il loro scopo è solamente quello di prevenire, o limitare, il danno[43]. Ma questo non significa che tali politiche non producano risultati: il quesito corretto non è, infatti, se combattere l'immigrazione clandestina sia efficace, bensì quale prezzo valga la pena di pagare per raggiungere l'obiettivo, specie – in democrazia – sul piano dei diritti e delle libertà; non è certo vero che "repressivo" equivalga ad "inutile"[44] , come spesso acriticamente asserito anche in altri ambiti.

Si consideri oltretutto che un intervento protezionistico può servire anche a prescindere dall'eventuale inevitabilità di lungo periodo del fenomeno che intende contrastare: potrebbe ad esempio rallentare il ritmo del cambiamento[45] (si pensi a quanto affermato nell'§1.1 a proposito della difficoltà dei sistemi ad adattarsi a bruschi mutamenti[46]).

Nel concreto, tra le possibili misure per controllare l'immigrazione clandestina possiamo ricordare:

         lotta contro le organizzazioni criminali che organizzano gli ingressi illegali[47] nel territorio dell'Unione Europea (e su questo c'è un accordo universale);

         sorveglianza dei confini (metodo forse costoso – va comunque inquadrato in ottica europea);

         identificazione certa dei fermati;

         preciso accertamento dei requisiti per l'accoglienza per motivi umanitari – in questo campo è particolarmente difficile contemperare le esigenze di tutela del benessere dei residenti nazionali con quella di salvare le vite di chi è minacciato da pericoli urgenti e specifici[48];

         credibilità nella gestione politica delle migrazioni (abbandono dell'abusato strumento delle sanatorie[49], dannose in questo come in altri campi, e attuazione di procedure attendibili di espulsione); suona beffarda, a distanza di più di un decennio, la retorica di Martelli (p.59): "La coscienza civile contro l'intolleranza, il razzismo, il neo schiavismo ha un solido presidio di diritto nelle nuove norme, che mirano a favorire una reale integrazione degli immigrati nel tessuto sociale e che non contengono alcun trattamento discriminatorio a scapito dei cittadini italiani, i quali, anzi, avranno la garanzia, in futuro, di più seri e rigorosi controlli preventivi, e delle inevitabili sanzioni nei confronti di attività illegali, di ingressi e presenze clandestine";

         anche se a rigor di termini si tratta di una questione distinta, è opportuno scoraggiare i matrimoni di interesse[50], o perlomeno quelli palesemente fasulli (cfr. Melotti, 2000a, pp.27-8).

In Italia vi è purtroppo una robusta tradizione, specialmente in queste materie, di leggi promulgate come proclami di principio, e non in vista della loro applicazione. Quanto più queste sono declamatorie, tanto più assomigliano nella loro inefficacia alle grida spagnole di manzoniana memoria[51] (abbiamo appena visto un esempio tra i molti possibili). Ciliegina sulla torta del velleitarismo legislativo, viene data più importanza alle questioni moralmente simboliche che non alla pragmatica valutazione dell'effetto delle norme sull'utilità collettiva: alcuni dubbi metafisici – il riconoscimento della coppia omosessuale porta alla dissoluzione della famiglia? abolire la legge Merlin renderebbe lo stato complice nella prostituzione? la clonazione rappresenta un'offesa alla Natura? – sembrano avere un peso sproporzionato rispetto a questioni di sicuro impatto sul benessere dei singoli, quali prevenzione della mortalità da incidenti stradali e sul lavoro, lotta contro fumo alcool e inquinamento e infine, forse meno intuitivamente, risanamento dei conti pubblici; del pari, in molti ambienti le preoccupazioni sulla presenza islamica sembrano maggiormente legate all'intangibilità del crocifisso sulle pareti nei luoghi pubblici che ai pericoli del terrorismo (cfr. nota 200)[52].

 

§1.4 – Le migrazioni come atto di giustizia

Torniamo agli assertori dell'ineluttabilità delle immigrazioni. Come abbiamo visto, la loro tesi prende le mosse dall'apprezzamento di circostanze sicuramente rilevanti: l'eccesso di popolazione da una parte, le distribuzioni squilibrate di crescita demografica e ricchezza dall'altra. Da questo si trae una doppia conclusione, suggestiva ma controvertibile:

a.       la spinta al riequilibrio (delle condizioni demografiche, dei redditi, del mercato del lavoro e in generale dei fattori produttivi) sarebbe sostanzialmente ingovernabile e tale da travalicare i confini nazionali;

b.      tale spinta si tradurrebbe soprattutto in afflusso immigratorio.

Vi è una cruciale questione di metodo che vorrei mettere in rilievo: questo argomentare si accorda di fatto con le teorie liberiste. Curioso però rilevare che tale convergenza si verifichi limitatamente al punto a, teoricamente più impegnativo perchè porta ad accettare il principio di fondo dell'autoregolazione dell'economia. La conclusione b appare tuttavia semplicistica (sui meccanismi di compensazione alternativi alle migrazioni si veda il §2.3); se aggiungiamo poi che tali formulazioni vengono proprio dagli avversari del libero mercato e della cosiddetta globalizzazione[53], sorge allora il dubbio – corroborato dal fatto che la soluzione b non implica conflitti con i valori terzomondisti – che si tratti di una presa di posizione faziosa: la conclusione non è subordinata all'analisi, ma viceversa (il malevolo sospetto si accorda con le affermazioni di Russell riportate in nota 10).

Questo vale a maggior ragione per l'atteggiamento stesso del fatalismo: in fondo si potrebbe argomentare, altrettanto sostenuti dai fatti, che la miseria (o lo sfruttamento, o l'ingiustizia) è comunque sempre esistita, che essa è strutturale, e che quindi è inutile contrastarla.

Sono convinto che il reale fondamento di molte posizioni aperturiste sia invece il seguente: lasciare libero ingresso ai poveri del Sud del mondo (come lo si chiama con enfasi populistica) è un indennizzo dovuto per lo sfruttamento passato (o magari anche presente[54]): si tratta di un aspetto di quella che è stata chiamata "l'alternativa penitenziale"[55]. Nel §4 ne esamineremo i moventi valoriali profondi, consideriamone adesso la struttura: le migrazioni possono intendersi come una sorta di nemesi storica[56], quando non addirittura giustizia divina; il benessere dei paesi ricchi sarebbe infatti dovuto alla spoliazione di quelli poveri[57]: al colonialismo[58] del passato[59] si sarebbe sostituita oggi quella dominazione economico-culturale chiamata "neocolonialismo"[60], imperniata sul ruolo perverso delle impersonali società multinazionali[61] – certo non associazioni di beneficenza[62], ma che di fatto, insieme alla finanza internazionale, ricoprono il ruolo del nemico indefinito tuttavia onnipresente che fu del complotto demo-pluto-giudaico-massonico[63] (circostanza questa che sembra rafforzare l'interpretazione dell'editoriale del Sole 24 Ore, Quando torna l'antisemitismo[64]).

C'è un teorema alla base della presunzione di colpa dei paesi sviluppati[65]: l'antichissimo postulato che non possa esistere guadagno se non a scapito di qualcun altro[66]; fare dell'economia un gioco a somma zero implica però negare che la ricchezza si possa creare o distruggere. Devo confessare che mi pare arduo disconoscere la dinamica storica della formazione delle disparità di reddito nel mondo, vale a dire un rapido arricchimento di alcune nazioni basato soprattutto sul progresso tecnologico (cfr. ad esempio Sartori 2001b, o Mistri 2002[67]), e magari anche sociale[68]; non si dimentichi che per di più molti dei paesi poveri del secondo dopoguerra si sono ritagliati un ruolo economico importante (penso in particolare alla fascia di paesi tra India[69] e Giappone), mentre il tanto rimpianto mondo preindustriale era caratterizzato da fame e miseria inusitate nella nostra epoca[70], per tacere di sopraffazione e violenza che semmai sono meno presenti nel mondo capitalistico-liberale che nelle altre civiltà[71]. Tranne eccezioni, è difficile sostenere che le cose siano peggiorate in prospettiva secolare, come invece si sostiene spesso, almeno implicitamente[72]; ma se l'accento viene posto più sul divario di reddito che sul livello di povertà in quanto tale[73], appare chiara la matrice delle rivendicazioni redistributive: la deprivazione relativa, ben conosciuta a sociologi ed economisti[74], motore di scontentezza assai più potente che non la miseria pura e semplice, favorita oggi dalla potenza dei media[75]; dal punto di vista non della povertà in sè, ma solamente della percezione di essa (è questa l'essenza della deprivazione relativa) può allora essere vero che il terzo mondo è più povero che non in passato[76], anche se sono cresciuti indicatori importanti – anche extraeconomici, quali la speranza di vita alla nascita – e soprattutto alcuni paesi che erano poveri negli anni '50 sono diventati a medio reddito o addirittura ricchi. Mi pare comunque che dal punto di vista etico tradizionale[77] le differenze di dotazione siano di rilevanza minore rispetto al bisogno assoluto.

A me resta incomprensibile come lo sdegno per la miseria di una parte dell'umanità possa rendere ciechi sugli spettacolari progressi compiuti in questi decenni sul piano della lotta alla mortalità, specie infantile, anche nei paesi più arretrati; sui costi connessi ad una diversa distribuzione delle risorse[78]; sulla scarsità d'acqua[79] (nel marzo 2003 si è tenuto a Kyoto il terzo forum mondiale sull'acqua); sul ruolo di volano dello sviluppo assolto dal mercato[80] (insostituibile, a parere dei liberisti; efficiente ma rischioso se incontrollato, secondo altri) e soprattutto dall'innovazione; sull'importanza ancora meno discutibile – anche solo per favorire lo sviluppo economico – della democrazia politica, dei diritti umani, della libertà individuale, e soprattutto del diffuso sostrato di maturità civile necessario per sostenere tutto questo; sul fatto che niente assicura che i paesi che oggi sono ricchi lo saranno anche domani[81]; sull'innegabile circostanza che l'intrusione più distruttiva nei confronti delle culture locali è stata senz'altro la più difficile da condannare: l'introduzione della medicina occidentale[82] (cfr. anche Panebianco 1989, Furcht 1990 p.666, Ronchey 2002d, e Rinaldi – vedi anche nota 115 – che in ottica coerentemente antisviluppista condanna tale introduzione), che ne ha fatto saltare gli equilibri demografici e di conseguenza sociali, intergenerazionali[83], produttivi. è proprio l'aumento incontrollato (o controllato troppo tardi) della popolazione il primo nemico del benessere nei paesi poveri – e più in generale, della sopravvivenza dell'umanità[84]. Dal punto di vista dei paesi avanzati, la proposta solidarista – così come viene riassunta da Sartori (cfr. nota 55) – sarebbe quella di finanziare l'esplosione demografica[85], rendendo così inevitabile, secondo la tesi analizzata nelle sezioni precedenti, l'afflusso di ulteriore massiccia immigrazione. E col rischio di ritrovarsi di fronte le masse ostili evocate da Ferrarotti (il passo è riportato poco sotto), di ammontare irrimediabilmente crescente.

Se dovessi trovare un tratto psicologico comune a gran parte del terzomondismo lo individuerei nell'idea del peccato[86] – lo "spirito di espiazione" che pervade le società occidentali (Ferrara 2004a)[87], alla base dell'alternativa penitenziale cui si riferiva Iraci Fedeli, è anche elemento quasi di voluttà nella tradizione culturale di certo cattolicesimo[88] (si veda Furcht 1993, p.231), oltre che di quel tipo atteggiamento ecologista che si traduce in acritica condanna dello sviluppo[89]. Il senso di colpa[90] può spiegare la natura delle angosce di Terzani[91], che affiorano in alcuni suoi passi quasi mistici (2001c): "Passano i giorni, ma non mi scrollo di dosso l'angoscia: l'angoscia di prevedere quel che succederà e di non poterlo evitare, l'angoscia di essere un rappresentante della più moderna, più ricca, più sofisticata civiltà del mondo ora impegnata a bombardare il Paese più primitivo e più povero della Terra[92]; l'angoscia di appartenere alla razza più grassa e più sazia ora impegnata ad aggiungere nuovo dolore e miseria al già stracarico fardello di disperazione della gente più magra e più affamata del pianeta. C'è qualcosa di immorale, di sacrilego, ma anche di stupido – mi pare – in tutto questo. (…) Eppure l'Afghanistan ci perseguiterà perchè è la cartina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza e che solo una forza di pace e non la forza della armi può risolvere il problema che ci sta dinanzi". Questa disposizione d'animo sovrappone però sensazioni umorali ad analisi razionali[93]: quanto di peggio per costruire futuro migliore per il genere umano.

Mi chiedo in ogni caso se si sia riflettuto a sufficienza sul fatto che è le migrazioni di risarcimento rappresentino non solo un mezzo di riequilibrio del tutto inefficiente, ma anche l'interpretazione meno attraente per l'opinione pubblica del paese di destinazione[94], che potrebbe non avere alcuna voglia di pagare (presunti) peccati originali pregressi[95] – così come non molti sembrano disponibili all'immedesimazione proposta dall'argomento populista dell'"eravamo emigranti anche noi"[96].

Certo, non contribuisce a tranquillizzarla la prosa di molti sostenitori di tali tesi, che ricorda a volte certe sceneggiature di film dell'orrore; va qui citato Ferrarotti (Oltre il razzismo, Armando editore, Roma, 1988, p.176, in Iraci Fedeli 1990, p.96; parte del passo è riportato anche in Melotti 1996), che pare scrivere di zombie: "Gli esclusi, gli emarginati, i periferici, quelli che con retorica forse eccessiva [meno male] sono stati chiamati "i dannati della terra" stanno uscendo, faticosamente, dagli ipogei della storia, non si contentano più di fungere da combustibile passivo per la fiamma che viene dall'alto, reclamando il loro posto come individui, vogliono partecipare in prima persona. (…) A grappoli, a torme slabbrate, in gruppi occasionali o compatti nei loro vicoli tribali, tenuti duramente insieme e, nello stesso tempo, isolati, dalla lingua, dai gesti, dagli occhi vividi e avidi, dal colore della pelle e dall'odore dei sudori, gli effettivi dell'esercito dei Terzomondiali son all'attacco, muovono con l'ineluttabilità di un fenomeno naturale verso le cittadelle della società opulenta[97]. Come i commando di una lucida e disperata determinazione [avremmo visto anche quelli], dal Sud e dall'Est verso l'Ovest e il Nord, essi avanzano, giorno dopo giorno, oscuramente convinti di quello che sono: le avanguardie di una nuova società, storicamente inedita – la società multirazziale, post-nazionale e multiculturale".

La mia opinione è piuttosto che l'unica premessa sana sia la convenienza per tutte le parti interessate, difficile in un afflusso guidato da fattori di espulsione[98]: è quindi necessaria grande selezione degli arrivi. L'apertura pressochè indiscriminata dei paesi sviluppati può invece tradursi in un esperimento sociale mostruoso, scatenato da apprendisti stregoni che non riuscirebbero poi a controllare le conseguenze dei conflitti terribili che rischiano di innescare[99]. Considerare i paesi ricchi come una sorta di bancomat del benessere[100] per chiunque (e, magari, in qualunque modo – si veda la nota 155) desideri servirsene[101] è insomma un pessimo servizio reso alla causa dell'apertura alle immigrazioni: significa infatti dar motivo all'opinione pubblica di temere che l'afflusso di persone provenienti dai paesi poveri si traduca immediatamente in un'iniezione di miseria, disperazione e violenza[102] nelle nostre società, il cui avanzamento civile in termini di tolleranza e garanzie di libertà potrebbe rivelarsi una debolezza; avremo modo di tornare su questo nel §3 (vedi in particolare la nota 245).



[6] Questo atteggiamento è ravvisato anche da Iraci Fedeli (1990, pp.17-8).

[7] Unita al rifiuto che la manodopera nativa esprime per molte mansioni (affronteremo questo aspetto nel §2 – cfr. in particolare la nota 107).

[8] In nota 108 sono menzionati due sostenitori, documentati ed equilibrati, di tale condivisa tesi – peraltro di per sè non del tutto infondata se ci si limita all'ambito strettamente economico.

[9] Tra i fautori delle "immigrazioni di sostituzione" sono da annoverare gli esperti dell'ONU – Vitali (p.52) cita a questo proposito il rapporto del 1998 (UN Population Division – World Population Prospects. The 1998 Revision – New York 1999). Si vedano anche l'articolo di Turani e il passo di Livi Bacci riportato in nota 49.

[10] Per dirla con Russell (pp.87-8): "Le divergenze politiche vertono spesso unicamente sui mezzi [in quanto contrapposti ai fini] e ancora più spesso vertono sui mezzi solo in apparenza. (…) di regola, le controversie relative alle questioni di fatto traggono origine molto spesso dall'assenza di imparzialità di coloro che pretendono di limitarsi ad accertare dei fatti. E questo accade in quanto una delle parti in conflitto, o entrambe, perseguono finalità che non possono confessare: entrambe infatti si trovano nella necessità di proclamare che perseguono uno scopo che coincide con quello del grande pubblico. Agli occhi del grande pubblico, che ascolta disorientato gli esperti delle parti in concorrenza, la disputa riguarda unicamente i mezzi, non i fini".

[11] Mettono invece il dito nella piaga interventi quali quelli di Sartori (2001a), Ronchey (2002a), Alvi e Sylos Labini.

[12] Si ricordi anche che Marx nutriva un astio particolarmente profondo nei confronti di Malthus, le cui dottrine addossavano l'onere morale del mantenimento di una prole troppo numerosa su chi avesse deciso di metterla al mondo.

[13] In particolare va segnalata la sostituzione della originaria questione della scarsità di cibo con quella della "sostenibilità ambientale". Ho inserito in bibliografia due libri di Lester Brown, un autore classico del neomalthusianesimo contemporaneo; un intervento più recente per il pubblico italiano è quello di Sartori e Mazzoleni. Tra i contributi più recenti in sostegno della tesi opposta (o meglio, teso a evidenziare la debolezza della base empirica della psicosi ambientalista) segnalo quello, documentato e particolareggiato, di Bjørn Lomborg.

[14] È appena il caso di ricordare che consumi totali e popolazione sono legati dalla formula: C=P*CPC; i consumi totali sono cioè il prodotto tra popolazione e consumi pro-capite; per una versione più sofisticata si può ricorrere alla formula di Holdren-Erlich (cfr. Mazzoleni in Sartori e Mazzoleni, p.143; vedi anche Vanolo). Tra le diverse incognite che il futuro ci riserva, anche quella delle conseguenze del prevedibile prossimo aumento di benessere nelle aree più popolose del nostro pianeta, quali Cina e India (su questo anche un passaggio di Sartori).

[15] "Moralista" quando la prospettiva di limitare i consumi non viene accettata come il minore dei mali, bensì come una provvida occasione di purificare le società sviluppate dalla corruzione del consumismo. Torniamo su questo atteggiamento, già affiorato ai tempi dell'austerity degli anni '70, nell'§1.4 e nel §4 (cfr. anche Furcht 1993).

[16] Iraci Fedeli si scaglia contro coloro che, accortisi in ritardo del disastro ecologico, "ne traggono conclusioni assurde: per esempio, invece di propugnare la riduzione della popolazione, propongono l'abbassamento dei consumi di chi produce" (1990, p.103; si veda poi il cap.V e la nota 55 qui).

[17] Questa dottrina etica, che suggerisce di massimizzare la felicità per il complesso dell'umanità, o degli esseri senzienti, ha i suoi padri nobili in Jeremy Bentham e John Stuart Mill (ma molti precursori, tra i quali due sono nominati in nota 42 insieme ad un illustre esponente novecentesco, citato più volte in queste pagine).

[18] Si confronti la ricetta utilitaristica classica, che suggerisce di massimizzare il benessere pro-capite, con la posizione di molti terzomondisti, spesso cattolici, riassunta da Sartori in nota 55.

[19] Già presente in diversi pre-malthusiani (cfr. Furcht 1985, p.293-II), questa tesi è fatta propria da Malthus (p.46); segnalo infine la polemologia di Bouthoul (che ebbe influenza anche in Italia, si veda ad esempio il pur discutibile libro di Aldo Spinelli), che scrive pp.11-2: "… tra tutte le funzioni sociologiche che possiamo attribuire al fenomeno guerra, la più frequente e la più stabile sta in una sorta di rilassamento demografico. La maggior parte delle funzioni biologiche, osserva il Bergson, consiste in un lento accumulo seguito da una brusca scarica. L'eccesso di popolazione è uno di questi squilibri e provoca presto o tardi inevitabili reazioni di adattamento. Queste si manifestano, molto spesso purtroppo, in oscillazioni distruttive, e la biologia sociale ce ne offre innumerevoli esempi. La guerra è uno dei modi, crudeli e catastrofici, per ristabilire periodicamente l'equilibrio tra le specie e il loro ambiente, e anche l'equilibrio di rivalità tra specie e gruppi concorrenti". Sul rapporto tra aggressività, andamenti demografici e disponibilità di risorse interessante l'analisi in Ortona (pp.60-1), con i casi contrapposti degli Yanomami e degli Inuit. Si veda anche la discussione del rapporto tra stress prossemico e aggressività in Nirenstein 1990; cap.V, cfr. anche in Ronchey 2003b e Kennedy 2004 (un accenno alla pressione demografica quale causa scatenante dei conflitti anche in Piganiol p.151: il riferimento è al mondo antico, quello del Lebensraum, lo "spazio vitale" diventerà naturalmente uno dei temi centrali dell'ideologia bellicista del nazismo). Il piano di analisi non è però solo quello dell'ammontare di popolazione bensì anche quello, più raffinato, della struttura per età – da collegarsi alla situazione occupazionale (con la quale, si noti, esistono complessi legami causali reciproci): "Ma non sarà forse proprio questa eccedenza di giovani non indispensabili all'economia del paese il primo motore dell'impulso bellicoso? Tale eccedenza non sviluppa nello spirito ambiente un'inclinazione all'aggressività? Sembra incontestabile che l'esistenza di quest'eccedenza di giovani sia la condizione necessaria alle soluzioni di violenza. Ne risulta che esiste un certo tipo di struttura demo-economica che è condizione determinante degli impulsi bellicosi. Abbiamo proposto di chiamarla struttura esplosiva. È caratterizzata dalla sovrabbondanza di giovani non necessari ai compiti economici indispensabili" (p.239). Ritroviamo gli stessi concetti in un passaggio dagli accenti sociobiologici di un'intervista ad Huntington che riguarda da vicino il nostro tema (Steinberger 2001): "Non credo che l'Islam sia una religione più violenta delle altre (…). Ma il fattore decisivo è quello demografico. In linea generale, quelli che vanno in giro ad ammazzare la gente sono giovani maschi, di età compresa fra i sedici e i trent'anni circa. Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta il tasso di natalità nel mondo mussulmano è stato elevatissimo e questo ha portato ad un enorme aumento del numero di giovani. Però questo picco demografico è destinato ad abbassarsi: il tasso di natalità nel mondo mussulmano, infatti, sta scendendo, e in alcuni casi è già precipitato in modo vistoso"; del resto questo è un cardine de Lo scontro di civiltà, in particolare per quanto riguarda il mondo islamico (cfr. anche Mazzoleni in Sartori e Mazzoleni, pp.128-9). Anche Ottolenghi (2003a) richiamava la straordinaria fecondità delle popolazioni arabe, in particolare quelle di Gaza, come una delle determinanti strutturali del conflitto arabo-israeliano. Non si dimentichi poi che il rapporto è leggibile anche in senso inverso, ovvero la maggiore prolificità può essere intesa come un'arma nei confronti di altre collettività (cfr. nota 144); d'altronde quello della differente fecondità, musulmana in particolare, è stato anche uno dei temi dell'odio etnico nelle guerre civili che hanno dilaniato l'ex-Jugoslavia (si ricordi anche il caso libanese).

[20] La Malfa (1991, p.203), Magli (2000), Alvi, Sartori (per es. 2000a, pp.46-7), Ronchey (2003b, 2004b e 2004c) e, implicitamente, De Marchi (2001) citano infatti tra le controindicazioni dell'immigrazione la densità già insopportabile dei paesi di destinazione; cfr. anche Offeddu 2004.

[21] La popolazione viene solitamente ritenuta eccessiva nelle aree con forte incremento demografico naturale, misurabile come la differenza tra i tassi generici (vale a dire, riferiti a tutta la popolazione e non specifici per età o altre caratteristiche) di natalità e mortalità. In linea teorica un determinato incremento naturale può derivare da diverse combinazioni dei suoi due componenti; del pari, un determinato andamento nel tempo di tale indicatore può essere dovuto a diverse dinamiche di questi. Di fatto, il caso più frequente – tipico degli inizi della cosiddetta "transizione demografica" – è quello di una natalità che si mantiene forte, cui si affianca una mortalità in rapida discesa.

[22] Acronimo per "paese in via di sviluppo", mentre PSA sta per "paese a sviluppo avanzato".

[23] Per quanto solo in senso relativo, quando anche nei paesi di destinazione vi sia un'alta disoccupazione.

[24] Che però non dipende solo dall'offerta (che risulta congiuntamente da fattori demografici e dalla propensione individuale ad immettersi sul mercato del lavoro – funzione tra l'altro della condizione femminile, della retroazione con la probabilità di occupazione, della propensione allo studio), ma anche dalla tecnologia e dal radicamento del settore moderno; le cose quindi sono più complicate di quanto non sembri a prima vista.

[25] Cfr. Bruni e Venturini 1992.

[26] Su questo si basano le cosiddette "migrazioni a catena".

[27] Cfr. ad esempio il Dossier Immigrazione 2000 della Caritas (p.24).

[28] È appunto quanto si sta verificando da alcuni decenni: cfr. nota 97.

[29] Il dubbio di Melotti, ne L'abbaglio multiculturale, è come convincere dei giovani a mantenere una popolazione di anziani cui non sono legati da vincoli familiari o etnici. La questione è concerne dinamiche assai delicate; Marano ad esempio osserva, illustrando natura e struttura del sistema previdenziale nel nostro paese: "Il sistema italiano si basa attualmente sul principio della "ripartizione" (pay-as-you-go in inglese): i contributi dei lavoratori correnti vengono girati ai pensionati. (…) Alla base del sistema vi è la fiducia che ogni generazione successiva accetti lo stesso sistema di finanziamento chi attualmente lavora è disposto a versare i propri contributi direttamente agli anziani perchè si aspetta che così avverrà anche in futuro, quando toccherà a lui ricevere la pensione " (p.19).

Iraci Fedeli sottolinea invece, in ambedue gli scritti riportati in bibliografia, che gli immigrati non continueranno in futuro ad accettare i lavori rifiutati dagli altri; per dirla in breve, presto "aspireranno (…) a diventare anch'essi parassiti di ceto medio", come la maggior parte degli italiani (1990, p.22). Sicuramente la maggior "docilità" del lavoro immigrato, base delle illusioni semi-schiavistiche di molti italiani, è destinata a svanire col tempo e in particolare con l'affacciarsi delle seconde generazioni (cfr. Ambrosini pp.52 e 72, e Della Zuanna).

[30] Cfr. ad es. il lavoro di Ulrich riassunto in Strozza, p.24.

[31] Con tutti i rischi attinenti alle seconde generazioni, che possono porre grandi problemi di ordine pubblico. Su tale questione cfr. Barbagli pp. 30-1 e 137-9, e Furcht 1993, p.226 – si veda anche l'accenno in Ambrosini p.123 (più indirettamente in Della Zuanna, che mette in rilievo l'importanza del tema). Ma oramai la questione va al di là di quella pur assai grave del crimine, perchè il problema diventa quello della rivolta diffusa (si pensi ai disordini francesi dell'autunno 2005) o peggio dell'adesione al terrorismo, come insegnano gli attentati londinesi del 2005 (ma anche l'assassinio di Van Gogh). Politi (2003b), parlando dell'Islam radicale e citando la Gran Bretagna, fa notare come l'integrazione sia più agevole nella prima generazione che nelle successive. Il problema, già evidente in molti atti di anti-semitismo in Francia e nell'origine di alcuni affiliati al terrorismo è esploso eclatantemente tra 2004 e 2005 con l'assassinio di Theo Van Gogh ad opera di un marocchino-olandese (cfr. nota 228), con gli attentati di Londra, perpetrati da immigrati di seconda generazione, e con la rivolta nelle periferie francesi. Scrive Allam a questo proposito: "Eppure questa identità islamica radicale, così fortemente e violentemente contrapposta ai valori fondanti e comuni della civiltà occidentale, riesce a far breccia tra taluni giovani musulmani residenti o addirittura nati in Europa, di fatto cittadini europei" (2004g). Torna su questo con dichiarazioni dell'aprile 2005: "Negli anni '50 e '60 era più facile integrarsi per i musulmani arrivati in Europa poichè anche nei loro paesi d'origine le società erano prevalentemente laiche allora. Paradossalmente (…) il problema dell'integrazione si pone con la nuova generazione, che ha una mentalità integralista e una visione dell'Islam fortemente condizionata dalla situazione internazionale" (in Zecchinelli 2005a). Così anche Kureishi: "I figli di immigrati nati in Gran Bretagna eranonon solo più religiosi e politicamente radicali dei loro genitori – la cui priorità era stata quella di integrarsi nel Paese d'adozione –ma addirittura disprezzavano la moderazione dei genitori e il loro desiderio di "venire a patti" con la Gran Bretagna. Ai loro occhi, queste posizioni esprimevano una debolezza ". Se quel segnale non fosse bastato, si pensi alla strage del 7 luglio 2005 a Londra, preannunciata da kamikaze britanici (cfr. nota 237); tra i commenti all'attentato londinese si vedano quello senza autore su la Padania, Bianconi 2005a (vedi ancora nota 237).

[32] Su questi costi differiti si sofferma anche Ronchey, 2003b.

[33] Su questo punto, cfr. anche Peretz in nota 140.

[34] Sartori erode con un'ingenua, velenosa domanda le sicurezze della tesi "gli immigrati vengono a portare ricchezza": "chi è utile a breve è utile anche a lungo?" (2000a, p.11); si veda anche Furcht 1996, p.224.

[35] Leggiamo in Guidi 2004: "Le multinazionali giapponesi e americane (…) hanno avviato la produzione di serie di elettrodomestici connettibili. L'ultima è la Hitachi, che in questi giorni ha comunicato di avere cominciato la produzione di frigoriferi che possono connettere a internet (…). la notizia è importante perchè questa operazione fa parte di un programma il cui primo scopo è utilizzare Internet e tutti gli strumenti hitech disponibili per aiutare le persone anziane sole". Su questo tema anche l'agenzia Ap del 21 ottobre 2004 (2007, il mondo invaso dai robot domestici Faranno le pulizie e si occuperanno dei nonni), e Superquark del 16 giugno 2005.

[36] È però fondamentale che buona parte degli anni di vita guadagnati sia trascorsa in condizioni di salute soddisfacenti; questo non tanto per non aggravare le esigenze di sostegno, quanto per permettere un prolungamento almeno proporzionale della vita attiva.

[37] Per una critica feroce del sistema di protezione sociale del nostro paese, anche alla luce dei legami con la politica dell'immigrazione, si veda Iraci Fedeli, 1990, cap.I.

[38] Non è indispensabile gettare il bambino con l'acqua sporca. Si può scegliere di mantenere alcune delle prestazioni più utili – l'osservazione riguarda il complesso del Welfare, sul quale torneremo nel §2.2 – pur tagliando sprechi e inefficienze, che rischiano oltretutto di rendere il sistema politico più permeabile alla corruzione.

[39] Indicative di questo atteggiamento le parole di Ferrarotti (Oltre il razzismo, Armando editore, Roma, 1988, p.176 – citato in Iraci Fedeli 1990, p.96-7): "L'orrore della vecchia Europa, che ha dimenticato i suoi valori e i suoi istinti migliori, è intuibile. Questo orrore non bloccherà nulla. è parte del dramma che viene compiendosi. C'è da augurarsi che gli europei meno legati al passato comprendano in tempo e fino in fondo ciò che sta accadendo. Siamo sempre più stupidi che malvagi. è inutile erigere barriere a difesa dell'opulenza dei pochi contro i quattro quinti dell'umanità affamata".

[40] Si legge ad esempio nel Dossier Immigrazione 2000 della Caritas (p.24): "Nel merito di questo grande fenomeno sociale, innanzi tutto bisogna arrivare alla conclusione che le migrazioni in se stesse non sono un problema. La vera questione consiste, invece, nel portare al massimo i loro benefici, legando migrazioni e sviluppo, evitando che gli interessi degli stati più ricchi e potenti si sovrappongano a quelli degli altri stati. (…) L'esperienza ha mostrato che le politiche restrittive da sole non bastano a contenere un esodo che si rifà a squilibri strutturali, e finiscono semmai di esacerbare il problema: si richiedono anche interventi di natura socio-economica e il collegamento con i paesi di origine".

[41] Molte dichiarazioni in questo senso, espresse in Parlamento all'indomani dell'11 settembre, sono riportate in Teodori, pp.13-5. Su questa linea anche Cassese, già presidente del tribunale dell'ONU per la ex-Jugoslavia. Un'esposizione pacata, e in versione filo-globalizzazione, di questa tesi in Petracca 2001; analoga posizione, pur caratterizzata da grande pragmatismo, anche quella di Cicchitto.

[42] Che deriva anche (perlomeno nel caso della delinquenza comune e del terrorismo) dalla confusione tra punizione come necessità morale retributiva, legata in prospettiva teologica al libero arbitrio, e punizione come espediente sociale per favorire la convivenza collettiva. Si veda Savater in nota 391 e soprattutto Russell, che scrive ancor più chiaramente: "L'omicidio viene punito non perchè si tratta di un peccato e perchè sia giusto che i peccatori soffrano, ma perchè la comunità desidera prevenirlo e perchè, di fatto, la paura della punizione fa sì che la grande maggioranza della gente se ne astenga" (p.85; cfr. anche nota 375). Tra i padri della visione utilitaristica della giustizia, vanno annoverati indubbiamente Hume e Beccaria. Per il primo, si veda la sezione La giustizia della Ricerca sui principi della morale, il cui incipit programmatico è estremamente chiaro: "Sarebbe impresa inutile provare che la giustizia è utile alla società, e per conseguenza che quanto meno una parte del merito che le si riconosce deve derivare da questa considerazione. Ma che l'utilità pubblica sia la sola origine della giustizia, e che la riflessione sulle conseguenza benefiche di questa virtù sia il solo fondamento del merito che le si riconosce, questa proposizione, essendo più degna di attenzione e più importante, servirà meglio al nostro esame ed alla nostra ricerca" (p.193). Per Beccaria si veda la nota 164.

[43] Arnaudi, maresciallo dei carabinieri, sbocconcella fegatini sott'olio di Arcidosso e così commenta, rivolto al suo creatore, l'arresto di un povero diavolo: "E per questo, vedi, Mario, non riesco a capire come uno che fa il mio mestiere possa dire di farlo con entusiasmo. Con zelo, sì. Ma poi, credi, tutte le volte è sempre una grande tristezza " (Lo specchio trasparente, in Soldati 1967).

[44] Si veda ancora la nota 10.

[45] Lo afferma lucidamente Polanyi – illustre antesignano del movimento antiglobalizzazione, assai pertinentemente citato anche da Alvi – nel suo ispirato La grande trasformazione; il passo è riferito alle recinzioni nell'Inghilterra post-elisabettiana, si tratta quindi di interventi contro la privatizzazione delle campagne: "perchè la vittoria finale di una tendenza dovrebbe essere assunta come prova dell'inefficacia degli sforzi per arrestarne il progresso? E perchè il fine di queste misure non dovrebbe essere visto proprio in ciò che esse conseguirono e cioè nel rallentamento del ritmo della trasformazione? Ciò che è inefficace nell'arrestare completamente una linea di sviluppo non è per questo motivo completamente inefficace. Il ritmo del cambiamento spesso non ha minore importanza della direzione del cambiamento stesso, ma mentre quest'ultimo spesso non dipende dalla nostra volontà, il ritmo al quale permettiamo che il cambiamento abbia luogo può dipendere da noi" (p.50, già riportato in Furcht 1999a).

[46] Cfr. anche Furcht 1990, pp.665 e 667.

[47] Niente di nuovo sotto il sole: nel romanzo di Verne citato in bibliografia, apprendiamo che il padre del protagonista si era arricchito "grazie alla creazione di un nuovo traffico, che si potrebbe chiamare "commercio dei coolie nel nuovo mondo"" (p.23, cfr. anche fino p.25). Nello stesso romanzo, un passaggio di inquietante attualità (anche se le parti tra Asia ed Europa si sono oggi invertite): "In quel momento arrivavano in porto delle navi straniere, la maggior parte sotto la bandiera del Regno Unito. Nove su dieci, bisogna pur dirlo, erano cariche d'oppio. Questa sostanza abbruttente, questo veleno di cui l'Inghilterra riempie la Cina, produce una cifra d'affari che supera i duecentosessanta milioni di franchi e consente un utile del trecento per cento. Invano il governo cinese ha cercato d'impedire l'importazione d'oppio nel Celeste Impero. La guerra del 1841 e il trattato di Nanchino hanno dato via libera alla mercanzia inglese e causa vinta ai grandi trafficanti. Bisogna d'altronde aggiungere che, se il governo di Pechino è arrivato fino a decretare la pena di morte per i cinesi che smerciano l'oppio, c'è sempre il modo, pagando, di arrangiarsi con i depositari dell'autorità. Si dice perfino che il mandarino governatore di Shangai incassi annualmente un milione, solamente chiudendo gli occhi sulle attività dei suoi amministrati" (pp.37-8). Un passo di grande indignazione di Marx (da un articolo sul New York Daily Tribune) sull'esportazione inglese di oppio in Cina è riportato in Melotti 1972, pp.188-9.

[48] Antonio Cassese, intervistato da Bianconi a proposito del caso Cap Anamur, puntualizza che ""… dev'esserci una persecuzione nei confronti di chiede asilo o lo status di rifugiato" Dunque non basta fuggire da una situazione di scarsa democrazia, come può essere la Nigeria, o di povertà? "No, non basta (…) Purtroppo l'Italia non può diventare la patria di tutti i poveri del mondo, o di tutti coloro che vivono in Stati autoritari, che peraltro sono la maggioranza [per] quel principio di sicurezza che dev'essere conciliato col rispetto dei diritti" (Bianconi 2004a).

[49] In caso si volesse una maggiore immigrazione, trovo più serio – ed anche più equo – favorire nuovi ingressi che non dare vantaggio a chi aveva violato la legge (piuttosto meglio non emanarla – si veda la nota 51). Sulle sanatorie si vedano gli interventi di La Malfa (1991), Melotti (1993, p.46) e Sartori (2000a, p.104); persino un assertore tutt'altro che timido dell'apertura all'immigrazione nota che "Le sanatorie, specialmente quando sono discusse e annunciate con mesi di anticipo, attirano nuovi arrivi, che per di più possono ormai contare su reti e punti di appoggio abbastanza consolidati" (Ambrosini, p.158).

Non va dimenticato, naturalmente, quanto sostiene Beccaria su provvedimenti affini quali amnistie, indulti e condoni: "A misura che le pene divengono più dolci la clemenza ed il perdono diventano meno necessari. Felice la nazione nella quale sarebbero funesti! La clemenza dunque (…) dovrebb'essere esclusa in una perfetta legislazione ove dove le pene fossero dolci ed il metodo di giudicare regolare e spedito [e qui purtroppo non ci siamo]. (…) si consideri che la clemenza è la virtù del legislatore e non dell'esecutor delle leggi; che deve risplendere nel codice, non già nei giudizi particolari; che il far vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti e che la pena non ne è la necessaria conseguenza, è un fomentare la lusinga dell'impunità, è un far credere che, potendosi perdonare, le condanne non perdonate siano piuttosto violenze della forza che emanazioni della giustizia" (XLVI Delle grazie, p.117).

Esplicitamente a favore di regolarizzazioni ricorrenti è invece Livi Bacci: "… quanto più rigide le leggi di ammissione, tanto maggiore è la clandestinità, naturalmente a parità di altri fattori. è per questa ragione che tutti i paesi ricchi, dagli Stati Uniti alla Spagna, dalla Francia all'Italia, sono costretti a ricorrenti regolarizzazioni allargate (sanatorie). L'espulsione di massa è impossibile per gli enormi problemi sociali ed economici che crea, la conservazione di centinaia di migliaia o di milioni di persone in stato di illegalità pericolosa per altri ben evidenti motivi. In Europa, in una fase di sviluppo contrassegnata dal ristagno o dal declino demografico, ricorrenti processi selettivi di regolarizzazione rappresentano forse la soluzione politica più saggia e meno costosa". Torneremo su questo argomento nella nota 160.

[50] Sul piano di principio non mi pare corretto sindacare le motivazioni del matrimonio (certo esistono matrimoni d'interesse anche tra cittadini italiani, e chissà se sono veramente pochi); piuttosto si può pensare a meccanismi legislativi che tolgano la convenienza a sposarsi per acquisire la cittadinanza.

[51] "Ogni legge che non sia armata, o che la natura delle circostanze renda insussistente, non deve promulgarsi; (…) le leggi inutili, disprezzate dagli uomini, comunicano il loro avvilimento alle leggi anche più salutari, che sono riguardate più come un ostacolo da superarsi che il deposito del pubblico bene" (Beccaria, XXXII Il suicidio, p.99).

[52] "Chi dichiara infami azioni per sè indifferenti sminuisce l'infamia delle azioni che sono veramente tali", Beccaria, XXIII Infamia, p.79.

[53] Anche se molti liberisti coerenti sono per l'apertura all'immigrazione, che in una visione economica di tipo neoclassico rappresenta una sorta di nemesi del mercato rispetto ai vincoli del mercato del lavoro. Una posizione questa abbastanza diffusa tra gli imprenditori, che potrebbero tendere a scaricare sulla collettività i costi sociali della produzione (che possono ad esempio prender forma di tensioni etniche, di accresciuta criminalità, o di diffusa intolleranza); su questo cfr. Peretz, n.140.

[54] Ci ricorda Ostenc, p.119: "Secondo alcuni autori, l'assimilazione dell'economia di mercato a una forma di rapina o comunque di un tributo gravante soprattutto sui paesi in via di sviluppo è invece una vecchia analisi marxista che in Francia è ancora viva, al pari delle accuse di "bellicismo"".

[55] La definizione è di Iraci Fedeli che di seguito aggiunge qualche considerazione su "la poco credibile proposta di un riequilibrio a spese dei ricchi": "In realtà, si tratta più di una protesta che di una proposta: i sostenitori, una volta soddisfatta la loro manifestazione di antipatia verso i presunti ricchi, non si prendono il disturbo di esaminare in che modo l'abolizione della ricchezza potrebbe contribuire ad evitare il disastro. Certo, sulla degenerazione di una cultura che si vorrebbe impegnata, dice parecchio il fatto che, nell'arco di venti anni (…) si sia passati dall'obiettivo di abolire la miseria a quello, certo meno entusiasmante, di abolire la ricchezza" (1990, pp.169-70); cfr. anche p.43 (riportato in nota 339) e 2000, p.85. Sull'"ossessione redistributiva", ove l'accento è però più sui doveri della solidarietà che su quelli del risarcimento, si veda ancora 2000, p.74; Sartori (2001a) aggiunge: "Per i procreazionisti che vogliono sempre più bambini, la colpa [del perdurare della fame] non è della crescita delle bocche da sfamare ma è della distribuzione e della malvagità [o forse della stupidità, come autorevolmente sostenuto? Cfr. nota 39] dei popoli benestanti. Il loro argomento è che la Terra potrebbe sfamare fino a 10 miliardi di uomini-formica, ma che chi ha cibo in eccesso non lo cede a chi ne difetta". Cfr. anche Teodori, pp. 44-5.

[56] Espressione presente nel titolo di Lanternari, citato in Melotti 2004.

[57] Si veda un pionieristico Panebianco (1989), del quale la pena di riportare direttamente un passo: "Come in un gioco di specchi, il terzomondismo, la cui prima origine va cercata nell'ostilità al capitalismo occidentale degli intellettuali occidentali, divenne l'ideologia dominante nel Terzo Mondo e ciò, a sua volta, contribuì ad alimentare il terzomondismo "metropolitano". Il terzomondismo, infatti, ha funzionato e funziona come ideologia autoconsolatrice per le classi medie delle aree extraoccidentali. Scaricare sull'imperialismo (e dunque all'esterno) le responsabilità del sottosviluppo è, ad un tempo, un modo comodo per non fare i conti con i nodi politici ed economici "interni" e anche, in virtù di quel tipico rapporto di furbesca complicità che sempre si instaura fra intellettuali (verbalmente) rivoluzionari e regimi autoritari, un modo di assolvere l'operato di regimi corrotti e inefficienti. Fuori d'Occidente il terzomondismo funziona così da cortina fumogena che nasconde i veri termini della questione sottosviluppo e consente di rinviarne sine die la soluzione. Per esempio consente di occultare una delle cause principali dell'indebitamento di molti paesi, nonchè dei processi inflazionistici che li flagellano: la vocazione "parassitaria" delle loro classi medie locali, la loro sperimentata capacità di vivere al di sopra delle possibilità che le capacità produttive di quei paesi sono in grado di assicurare".

Su questo tema segnalo poi l'approfondito quanto appassionato intervento di Kohlhammer. A proposito delle virtù autoconsolatorie di queste dottrine, osserva: "Se però la teoria strutturalista e quella della dipendenza sono palesemente errate e, dal punto scientifico, sono già state messe agli atti da lungo tempo, allora perchè "continuano a dominare la discussione nei Pvs e altrove" (Gilpin), perchè vengono difese con veemenza e aggressività proprio nel Terzo Mondo, che dovrebbe sapere meglio di tutti come stanno le cose? Ambedue le teorie spiegano il sottosviluppo attraverso fattori esterni e con ciò svolgono una funzione di discolpa nei confronti delle èlites dominanti dei Pvs: attribuiscono ad altri la responsabilità della miseria. Giustificano indirettamente le condizioni politiche e sociali interne dei Pvs, visto che non è colpa loro se le cose non migliorano " (cfr. anche la nota 116). Ci ricorda Panella, a proposito del mondo islamico: "Nel novembre 2001 l'iraniano Amir Taheri denuncia sul "Wall Street Journal" "la bigotteria, il fanatismo, l'ipocrisia e l'ignoranza di cui il mondo islamico è pieno". Punto centrale della dichiarazione di Taheri, di fede musulmana, è la critica della "cecità autocompiciuta" degli islamici, chiusi in un mondo referenziale culturalmente infantile in cui tutte le colpe vanno addossate agli altri, mai a se stessi. Asse portante di questa autogiustificazione continua è la convinzione che i loro paesi non siano democratici per colpa esclusiva del colonialismo occidentale. è una tesi, indifendibile sul piano scientifico, che però viene continuamente ripetuta e fa parte ormai anche di una delle più pericolose litanie del terzomondismo dozzinale europeo, cristiano o laico che sia" (2002, p.135). Si veda anche Mieli 2004d, commento a un saggio di Guglielmo Verdirame apparso su il Foglio; sul complesso di colpa dell'occidente cfr. anche Pera in Conti 2006a.

Segnalo ancora la ricostruzione che Iraci Fedeli (1990, cap.II) compie delle radici letterarie più immediate del terzomondismo, in particolare I dannati della terra di Franz Fanon ("amico e del dittatore Ahmed Sekoud Tourè, ottuso e ferocissimo oppressore del popolo di Guinea", Iraci Fedeli 1990, p.66; si ricordi quanto citato da Panebianco in questa stessa nota, sulla "furbesca complicità" coi regimi autoritari), scritto tra 1960 e 1961; per quanto specificamente riguarda i risarcimenti, significativo il passo riportato in Iraci Fedeli 1990, p.85, inflazionato di plurales majestatis che ispirano diffidenza verso chi – senza investitura alcuna – si sente autorizzato a parlare in nome di popoli interi: "L'Europa è letteralmente la creazione del Terzo Mondo. Le ricchezze che la soffocano sono quelle che sono state rubate ai popoli sottosviluppati. I porti dell'Olanda, Liverpool, i docks di Bordeaux e di Liverpool specializzati nella tratta dei negri devono la loro fama ai milioni di schiavi deportati, e quando noi sentiamo un capo di Stato europeo dichiarare con la mano sul cuore che deve portar soccorso agli sventurati popoli sottosviluppati, noi non palpitiamo di riconoscenza. (…) Anzi, ci diciamo: "È una giusta riparazione che ci verrà fatta". Perciò non accetteremo che l'aiuto ai paesi sottosviluppati sia un programma da "suore di carità". Quest'aiuto dev'essere la consacrazione di una duplice presa di coscienza da parte dei colonizzatori [immagino sia un refuso per "colonizzati"] di ciò che è loro dovuto e delle potenze capitaliste che effettivamente devono pagare". Molto chiaro Riotta, che rievoca la conferenza Asia-Africa di Bandung (18 aprile 1955): "I "valori del terzo mondo", teorizzati da Fanon, cantati in versi da Senghor e portati sugli schermi da Rocha per esorcizzare il male d'Occidente, hano presto dato frutti sterili. I campi della morte di Pol Pot e talebani, le stragi africane da Bokassa al Ruanda, la corruzione e la dittatura diffusi dagli eredi di Bandung hanno cancellato le speranze di un "nuovo mondo"" (2005b).

È forse il caso di ricordare quanto scrive Brown nel 1978: "Con poche eccezioni, la distribuzione più iniqua del reddito si trova nel Medio Oriente, in Africa, e nell'America latina. Abbastanza stranamente, proprio quei paesi i cui capi sostengono che la ricchezza internazionale è mal distribuita e che si impone un nuovo ordine economico internazionale sono quelli che figurano peggio in questi confronti fra paesi" (1980, p.206). Devo però segnalare quanto scrive Gallino (2002): "Con un coefficiente di Gini di 0,457, gli Usa avevano nel 1999 una distribuzione del reddito molto più diseguale di molti paesi poveri, quali il Bangladesh, l'Egitto, il Ghana e il Pakistan" (è ovvio che in ogni caso status e diritti sono distribuiti con molta maggiore parità in una democrazia liberale che in quel genere di nazioni).

[58] Per una critica delle tesi semplificatrici che al colonialismo attribuiscono le colpe della povertà del Terzo mondo si veda Melotti 1972, che da una prospettiva di analisi marxiana afferma: "Lungi da noi l'intenzione di sottovalutare la componente esterna del sottosviluppo; (…) In ogni caso la pretesa di utilizzare i danni provocati dal colonialismo come esaustiva ed universalmente valida spiegazione del sottosviluppo, come oggi si tende a fare da parte di molti sedicenti "marxisti", nonostante l'ovvietà del fatto che i paesi in questione poterono essere colonizzati solo perchè erano materialmente inferiori in quel tempo e non mostravano alcuna tendenza verso uno sviluppo industriale di tipo occidentale, "appartiene chiaramente – come ha ben visto il Lowenthal [Richard Lowenthal – Il governo nei paesi in via di sviluppo: le sue funzioni e la sua forma – in: AA.VV. Die Demokratie im Wandel der Gesellschaft – Colloquiuum Verlag Otto H. Hess, Berlino, 1963 (ed.it.: Jaca Book, Milano, 1967)] al dominio della mitologia e non a quello delle scienze sociali", e tanto meno al marxismo" (pp.123-4). L'atteggiamento di Marx ed Engels in merito, pur non univoco e comunque alieno da simpatie per le potenze colonizzatrici, era del resto estremamente lontano da quel populismo retrogrado di stampo pauperistico che è oggi molto diffuso anche a sinistra – si vedano ad esempio le pp. 176-89 ancora in Melotti 1972.

[59] Vengono normalmente escluse dal conto le colonie interne zariste dell'Asia centrale e settentrionale, presumibilmente perchè poi passate all'URSS, e lo stesso vale per la Cina (anche se il Tibet ha dalla sua un po' di vento in poppa soffiato da mode esotizzanti); su un altro piano, parlando di schiavismo è raro si menzioni quello extra-europeo e in particolare quello esistente ancor oggi in alcuni paesi islamici. Forse le cose cambieranno, se si delineasse un asse preferenziale Washington-Mosca nell'alleanza mondiale anti-terrorismo promossa dagli USA.

[60] Questa egemonia si estenderebbe anche alle politiche di sviluppo; si legge ad esempio sul Dossier Immigrazione 2000 della Caritas : "C'è poi il problema rappresentato dai bisogni che i programmi di sviluppo identificano attraverso i loro esperti e le istituzioni preposte. Questi bisogni troppo spesso non corrispondono a quelli reali delle persone che si trovano tagliate fuori dal sistema economico e sociale (e per lo più residenti nel Sud del mondo impoverito), perchè sono individuati solo dal punto di vista dell'osservatore (cioè il Nord opulento) tramite una determinata idea di economia, una particolare categoria di consumatore e un relativo parametro di povertà. "Con il detto non diamogli pesce, ma una canna da pesca – spiegano gli autori del �Dizionario dello sviluppo' curato dal Gruppo Abele si è spesso legittimato l'imperialismo culturale dell'Occidente ai danni dell'autosostenibilità di intere comunità del Sud. L'assistenza cultural-tecnologica si è spesso dimenticata di chiedersi se la canna da pesca fosse veramente ben accetta da qualcuno che magari ha sempre pescato in un altro modo, o addirittura non mangia proprio il pesce. Quest'ultimo �aiuto allo sviluppo' costituisce spesso il piatto forte delle ricette dei più fieri avversari dell'arrivo degli immigrati" (pp.22-3).

Sull'ultima considerazione concordo (si vedano la nota 94 e più largamente il §2.3). Non posso tuttavia esimermi da alcune brevi considerazioni su quanto testè riportato, ispirato al terzomondismo più ortodosso:

1.       in primo luogo, tra tutti gli argomenti, la confutazione ad hominem (se il mio nemico appoggia una certa tesi, allora questa è falsa; per contro, se Tolomeo sostiene una certa verità, Galilei ha torto) è quello con minor forza logica;

2.       non è chiaro quale alternativa sia preferibile alla canna da pesca (ma può essere sia il sottoscritto – nonostante i suoi sforzi – ad essere disinformato sulle proposte in positivo al riguardo dei terzomondisti) al di fuori del pesce gratis: sotto forma di aiuto diretto, del quale si dirà al §2.3, o di gita in pescheria – le migrazioni di risarcimento, oggetto di questo paragrafo;

3.       temo quindi affiori la predilezione per l'elargizione destinata al consumo rispetto a quella per l'investimento: in termini meno eleganti, la preferenza per l'elemosina – che ben si inquadrerebbe in una mentalità religiosa, privilegiando nei fatti l'etica dell'intenzione rispetto a quella della conseguenza (torniamo sui temi morali nel §4.4 e in Appendice 2);

4.       un dubbio: se bisogna rispettare le mentalità locali, perchè combattere consumismo ed edonismo nei paesi ricchi? può darsi sia questo il nostro pesce (una risposta la dà Panebianco, cfr. nota 69);

5.       il passaggio finale lascia poi pensare che le migrazioni siano un bene in sè, a prescindere dalla loro funzione economica: provo nel §4 ad abbozzare un'interpretazione di simili posizioni. Inoltre: se è vero che il "nostro" benessere non interessa, perchè mai l'emigrazione dal terzo mondo? Non si tratta solo (anzi, raramente) di persone che sfuggono alla fame, spesso esiste invece un'evidente aspirazione a conformarsi allo stile di vita dei PSA.

[61] Osserva Kohlhammer: "Un posto centrale nella demonologia delle Anime Belle è occupato dalle società multinazionali o transnazionali (…) Ultimamente, alle multinazionali si rimprovera anche di non investire in molti Pvs, cosa che rappresenterebbe una nuova forma di imperialismo capitalista. Sampson divulga la dichiarazione dei politici del Terzo Mondo secondo cui esiste soltanto una cosa peggiore che venire sfruttati dalle multinazionali: non venirne sfruttati" (pp.779-80). In questo senso anche l'articolo (senza firma) di Milano Finanza del 7 maggio 2005, che così commenta la discussa equiparazione dei capitalisti alle locuste (dovuta al genio creativo, non privo tuttavia di antecedenti, di Franz Münterfering, della sinistra SPD e presidente del partito): "Verrebbe da consigliare alla Germania di utilizzare più locuste". Nello stesso articolo riferimenti alla medesima retorica anticapitalistica in Francia, con riferimento allo schieramento avverso alla ratifica della costituzione UE nel referendum del 2005 (questa anche la posizione di Scalzone, che si contrappone all'europeismo, pur scettico e finalizzato ad un progetto antiamericano, di Toni Negri – cfr. Appendice 1285).

"Lo storico Luciano Cafagna, riformista da sempre e oggi padre nobile dell'intera area liberal raccolta sotto le insegne dell'Ulivo", intervistato da Fertilio (2003) dichiara: "Purtroppo esistono al suo interno [l'elettorato ulivista] alcune ambiguità. Come i no global, ad esempio, che ripropongono vecchi vizi, mitologie sullo strapotere delle multinazionali e sull'imperialismo. E poi quella idea di un mondo schifoso che dovrebbe essere redento da una bella rivoluzione. La quale invece, come già accaduto nella realtà storica, lo renderebbe ancora più schifoso". è un bene che le cose nel nostro paese finiscano a volte in commedia, come è stato per la gustosa vicenda del mazo 2005 relativa al bando della Coca-Cola dai distributori automatici dell'università romana di Tor Vergata.

[62] Una fortuna, forse, dal momento che tra le organizzazioni fiancheggiatrici del terrorismo islamico se ne stanno scoprendo molte ufficialmente caritatevoli: si vedano in generale le rivelazioni di stampa dell'autunno 2001; tra i riferimenti in bibliografia Bono, Jean 2001d p.104, Carnimeo e Butrović, Negri 2003b e 2004b, M.Monti, s.a. su il Sole-24 Ore del 7 settembre 2004, De Giovannangeli, Olimpio 2006a di Magdi Allam (d'ora in poi solo Allam, mentre K.F.Allam verrà richiamato col nome intero) del settembre 2003 e il 2005d, o l'audizione del gen. Roberto Speciale (ASCA del 25 febbraio 2004); per un caso italiano, vedi l'articolo di Battistini e Della casa sull'ong Abssp accusata di finanziare le famiglie dei kamikaze palestinesi (cosa che rappresenta un ovvio incentivo). In Bergsson leggiamo che l'abitudine di usare i fondi di questo tipo di organizzazioni per finanziare il terrorismo esisteva già dagli anni Trenta del secolo scorso.

[63] Un evidente parallelo nella recensione di Carioti alla pubblicazione dei discorsi di Ezra Pound alla radio fascista durante la guerra, a cura di Dolcetta: "Stupisce tuttavia il taglio dei commenti con cui Dolcetta (autore tra l' altro per l' Unità di alcuni dvd sul tema "I tabù della storia") accompagna nel libro le parole del poeta americano. "La straordinaria attualità di Pound - si legge - è nel denunciare una sorta di complotto mondialista di matrice ebraica che gestisce i poteri forti, quelli del denaro, della moneta, con l' usura e la massoneria come braccio armato, e quindi i governi americano e inglese alleati nel controllo e nel dominio del mondo. L' attualità della denuncia di Pound deriva anche dalla situazione attuale del mondo: i poteri forti si sono, secondo le teorie catastrofiche della destra radicale di un tempo, materializzati nelle grandi istituzioni multinazionali". Segue un parallelo fra Pound e il leader dei contadini no global francesi, Josè Bovè, che Dolcetta ribattezza "Jacques Bovet". Ma al di là della svista, è l' esplicito apprezzamento per una visione cospirativa della storia, con forti venature antisemite, a lasciare quanto meno perplessi" (Carioti 2006a).

Sull'immagine delle multinazionali si vedano poi i passi di Kohlhammer (nota 61), di Mazzoleni (riportato nel §4.3), l'accenno alle "oligarchie produttive" contenuto nella nota 155, o le dichiarazioni di Dario Fo e Franca Rame (ho incluso in bibliografia anche un commento di Valerio Riva, cfr. anche Sartori 2001b).

Annota Mistri, a proposito del libro di Michael Hardt e Antonio Negri L'impero. Il nuovo ordine della globalizzazione: "Il problema dei critici della globalizzazione – tra cui debbo collocare anche Hardt e Negri – è quello di non essere in grado di comprendere fino in fondo la forza autoregolante dell'Impero, che per questi due autori diviene l'insieme delle regole che l'economia mondiale si sta dando. Il problema di fronte al quale si trovano i no-global di varia ispirazione è che, in realtà, tali regole non discendono da un disegno coerente, a meno che non si voglia pensare ad una sorta di Spectre mondiale che individua le strategie da compiere, dirigendo governi e istituzioni internazionali. Insomma, una versione riveduta e corretta della cospirazione demo-pluto-giudaica-massonica, di fascistica memoria. Quando persone che si dicono di sinistra, abbandonando il rigore metodologico di Marx, smettono di analizzare in maniera oggettiva le logiche che governano le forze in campo, e si mettono a rincorrere complotti planetari c'è da scommettere che le analisi che ne escono sono di debole caratura intellettuale. (…) Nella loro ricerca della dimensione demoniaca del capitalismo Hardt e Negri vedono in ogni avvenimento politico di largo respiro il frutto di un disegno razionale e perverso dell'internazionale capitalistica" (2002, pp. 96 e 98). Sentiamo ancora Riotta su uno dei fari del pensiero "alternativo", in un commento sul rilascio di Torretta e Pari: "Pensare che la scrittrice celebre Naomi Klein, autrice di "No logo", aveva spiegato che a rapirle erano state la Cia e il premier Allawi, che la Casa Bianca e Palazzo Chigi non si stavano impegnando per la liberazione e che "se il rapimento finirà nel sangue, Washington, Roma e i loro lacchè iracheni useranno la tragedia per giustificare la brutale occupazione… e forse questo è il piano dall'inizio". Quanta ipocrisia, violenza e propaganda in una sola frase [che la Klein sia invece lacchè di Al-Zarkawi?], quanta irresponsabilità! Libere Simona&Simona possiamo ripetere che la stupidità di chi vede ovunque complotti, contro l'occidente [si pensi al generale Ripper di Kubrick] o contro l'oriente, partorirà tempeste" (2004f); sulle dietrologie fiorite a proposito di questo rapimento, e anche sull'ipocrisia doppiopesistica di chi simpatizza per la "resistenza" irachena, cfr. Capuozzo 2004b (vedi anche nota 64).

Sul sostrato sociale per l'odierno rifiorire di queste teorie vedi anche Castronovo, che tratta delle angosce di una piccola borghesia preda potenziale di contrapposti estremismi: "…ciò che accomuna queste due forze politiche ancorchè antagoniste l'una all'altra, è l'avversione o comunque una profonda diffidenza nei confronti della Comunità europea, in quanto dipinta come una creatura dei "poteri forti", di una èlite tecnocratica e degli interessi delle multinazionali. Ed è questo un ulteriore suadente motivo di mobilitazione politica a cui una parte del ceto medio, in cerca di un capro espiatorio per le sue angustie e i suoi dilemmi, non è insensibile" (2004b).

Le teorie paranoiche del complotto, che nella storia hanno unito gli estremismi meno razionali, sono spesso frutto di cinica propaganda diretta a masse ridotte a gregge, feroce magari, da ignoranza e mancanza di abitudine alla libertà. Su di esse vedi le considerazioni in nota 193 (cfr. anche nota 145); qui invece mi preme riaffermare che, qualora siano invece espresse in buona fede, sono contraddistinte non solo da grande dilettantismo e attitudine vittimistica e soprattutto paranoide, ma anche da una sorta di atteggiamento infantile verso quei fenomeni impersonali che richiedono troppa capacità d'astrazione per venir compresi da intelletti primitivi. Ricalcando i possibili meccanismi di formazione del senso religioso primordiale, si tenta quindi di attribuire i propri mali all'agire di forze oscure, più facili da comprendere. In questo possiamo riprendere una citazione di Russell (da Le idee che sono state dannose per l'umanità), che ho già usato in Furcht 1999: "Uno degli effetti più distorti dell'importanza che ognuno di noi attribuisce a se stesso è che tendiamo a supporre che il nostro bene o il nostro male siano lo scopo delle azioni altrui. Se passate con un treno vicino a un campo dove ci sono delle mucche al pascolo, talvolta le vedrete fuggire via terrorizzate al passaggio del treno. La mucca, se fosse un metafisico, direbbe: "Tutti i miei desideri e le mie speranze si riferiscono a me stessa; quindi ne deduco che tutto nell'universo si riferisce a me stessa. Questo treno tanto rumoroso, pertanto, intende farmi del bene o del male.Non posso pensare che voglia farmi del bene, dato che si presenta in una forma tanto terrificante, e quindi, da buona mucca prudente, devo fare di tutto per sfuggirgli". Se provaste a spiegare a questo ruminante metafisico che il treno non ha alcuna intenzione di abbandonare le rotaie, e che è totalmente indifferente alle sorti della mucca, la povera bestia sarebbe sbalordita di fronte a qualcosa di tanto innaturale. Il treno che non vuole farle nè del bene nè del male sembra ancora più freddo e più incomparabilmente terrificante di un treno che voglia farle del male. Ecco cosa è accaduto agli esseri umani. Il corso della natura a volte procura loro fortuna, a volte sfortuna. Non riescono a credere che tutto ciò accada per mera coincidenza. La mucca, avendo saputo che una sua compagna è morta schiacciata sulle rotaie, persisterebbe nelle sue meditazioni filosofiche, e, se fosse dotata di quel minimo di intelligenza che caratterizza gli esseri umani, arriverebbe a concludere che la povera mucca è stata punita per i propri peccati dal dio della ferrovia (...)". In questo senso Eco, intervistato da Riotta: "L'umanità non resiste, un complotto per ogni evento. Ha paura di non spiegarsi quel che accade: meglio accettare che sottoterra ci sia una regia occulta. L'angoscia scatena la mania del complotto che finisce per tranquillizzarci. (…) Ma è inutile illudersi, mi indicano come il padre della reazione contro i complotti [per il romanzo Il pendolo di Foucault, una sorta di razionale manifesto anti-complottologico] e invece è stato già il filosofo Karl Popper nel suo saggio �Congetture e confutazioni' tradotto dal Mulino, a riflettere sulo bisogno che sembra innato nell'umanità di spiegarsi la realtà, non con la ragione e quel che abbiamo sotto gli occhi, ma con un segreto capro espiatorio. (…) I finti complotti spesso ispirano verissime carneficine'" (2005e). Vedi anche Romano, 2005a (più indirettamente, anche Polese 2005), e Galli della Loggia 2005b.

Altra possibile componente: un parimenti candido(vale a dire spesso sanguinario) manicheismo, qualora si rifiuti di credere che i "buoni" possano essersi macchiati di crimini che non si approvano: le Brigate rosse in realtà erano di destra, i pacifisti italiani non sono stati rapiti e uccisi dalla "resistenza" irachena bensì da fantomatici servizi segreti, gli attentati contro musulmani non sono opera di Al Qaeda bensì di Israele (su alcune di tali leggende e superstizioni alberganti nel mondo islamico torno in nota 193), e così via.

[64] "Le basi dell'antisemitismo europeo sono profonde: non poggiano solo sulla paura per il "diverso da sè" tipico delle pulsioni xenofobe. (…) Vi è anche la paura per "gli uomini che trattano i soldi" che ha le radici nel Medio Evo cristiano, quando il denaro era solo sterco del diavolo. E i commercianti e i primitivi banchieri ebrei erano esposti all'odio. Da quella paura deriva l'antisemitismo come "socialismo degli imbecilli", base poi del consenso ad Hitler" (7 gennaio 2004). Capuozzo (2004b), commentando le imprese della "resistenza" irachena, si sofferma su alcuni tratti di questi "nazisti dei giorni nostri", dal principio "Dio è con noi" all'antisemitismo ad, appunto, l'idea di un complotto ebraico-capitalistico (su questo cfr. nota 193). Si noti però che ovviamente questo tipo di antisemitismo, che tra XIX e XX secolo è fiorito sotto la destra (zarista e nazista), non è monopolio della sinistra. Si affaccia anzi anche al "centro": si pensi alle dichiarazioni del forzitaliota Guido Crosetto nel 2005 (su questo, Riotta 2005g), che avevano un illustre precedente nelle dichiarazioni di Mastella del 1994 (cfr. ad es. Preziosa).

[65] Questa anche l'interpretazione di Kohlhammer (p.786), di Ostellino (2002b) e di Pascal Salin su Le Figaro, citato in Brunetta.

[66] "Don Vitaliano della Sala, il parroco-no global rimosso dalla Curia, taglia corto [a proposito di "espropri proletari"]: "Lo diceva anche Sant'Ambrogio: tutto quello che i ricchi hanno in più è rubato ai poveri"" (da Caccia 2004).

[67] Che mette in rilievo come questo metta in crisi il tradizionale concetto di "sfruttamento": "La sinistra di classe si trova oggi a dover fare i conti con il concetto di ricchezza che non è più definibile come "lavoro incorporato" nei prodotti [ammesso lo sia mai stato], ma come valore aggiunto dell'intelligenza applicata al lavoro. (…) Si tratta di una ricchezza che produce soprattutto beni immateriali, mentre i beni "materiali" sono sempre più fabbricati "fuori" dai paesi avanzati. Shapiro e Varian, in un recente volume (Information Rules), affermano, con una buona parte di ragione, che nella new economy è costoso progettare i beni, ma è molto semplice riprodurli. Questo spiega la spinta alla "delocalizzazione" dei processi produttivi "bruti" a cui si accompagna la concentrazione nei paesi avanzati delle attività di progettazione, soft. In un simile contesto le armi del conflitto sociale, trasportato a livello di paesi, non sono utilizzabili perchè i beni immateriali non sono sequestrabili ed il loro valore non si incorpora in nulla, ma si disvela nell'intelligenza di chi li usa" (p. 97).

[68] Con questa espressione possiamo intendere l'innalzamento del livello d'istruzione, il maggior contributo di tutti i settori della popolazione – si pensi in particolare alle donne – al mondo della cultura e del lavoro, la libertà di ricerca ed un'efficiente divisione del lavoro. Scrive Panebianco (2001): "Quando, ad esempio, si scrive, come fosse una verità inconfutabile, che le nostre "libertà" sono fondate sul benessere economico, a sua volta prodotto dallo sfruttamento dei non occidentali, non si dice solo una solenne sciocchezza (figlia, appunto, della perdita di memoria storica): le nostre libertà, così come il nostro benessere, sono i frutti maturi di una millenaria evoluzione occidentale; le "libertà" occidentali sono state condizione indispensabile per la crescita della ricchezza e del benessere; e gran parte della povertà che alligna, per esempio, nei Paesi islamici si deve al clamoroso fallimento delle loro classi dirigenti"; Sartori, lapidario, aggiunge: "I Paesi ricchi sono tali per virtù e merito proprio, non perchè hanno rapinato i Paesi poveri. Questi ultimi sono poveri perchè malgovernati e perchè sovrappopolati" (2003c). Un contributo fondamentale su questo argomento è quello di Rosenberg e Birdzell, cui si rifanno anche Nirenstein (1990, pp.142 e segg.) e Panebianco 1989, che tra le argomentazioni che dimostrano l'inconsistenza di questa tesi terzomondista menziona anche "Weber e, in genere, tutta la letteratura sulla specificità dell'esperienza occidentale". Alle caratteristiche di apertura interna si sommano poi i vantaggi della cooperazione internazionale: "Per più di due decenni, la globalizzazione ha fatto salire la qualità della vita, ma non nei paesi che si sono autoesclusi con la tirannide o la guerra civile" (Ferguson 2004).

Sullo stesso tema si vedano anche gli interventi di Anna Bono, Brunetta e Mieli (2004c).

[69] Così commenta Iraci Fedeli (1990, p.94) un breve richiamo di Ferrarotti a Cina e India: "Forse è la prima evocazione dell'India nella cultura dei dervisci populisti. Evidentemente, solo per far numero. Quell'India che all'eversione populista è tanto antipatica per le sue istituzioni democratiche, per la sua serietà, stabilità, dignità, per il suo rifiuto di ogni vittimismo protestatario. Ma quanto gli piace il dispotismo cinese!". In senso analogo mi pare di potere interpretare anche questo passaggio di Panebianco (1989): "Naturalmente, i relativisti culturali barano al gioco. Poichè nessuno, occidentale o non occidentale che sia, può evitare di giudicare il mondo da un qualche "punto di vista" (il suo) quella sorta di sospensione del giudizio morale che il relativismo culturale pretende è irrealizzabile. E difatti i relativisti culturali sono assai meno relativisti di quanto essi credono. Lungi dal porre le culture su un piano di parità essi credono fermamente nella "superiorità" di (qualsiasi) cultura extraoccidentale rispetto alla cultura (materialista) occidentale, regno del profitto, del consumismo e dell'alienazione. Il che spiega perchè il relativista culturale non provi alcuna simpatia per quei (pochissimi) paesi del Terzo Mondo che hanno adottato le istituzioni politiche occidentali". Rincara la dose Kohlhammer: "Lo scarso interesse e l'assenza di simpatia nei confronti dei paesi menzionati [il Giappone le tigri asiatiche] possono essere ricondotti anche alla differenza sempre minore per ciò che riguarda la loro cultura e società:essi sono occidentalizzati, peggio ancora, americanizzati. Lo sviluppo riuscito fa del buon selvaggio uno sfruttatore con l'abito tagliato su misura – e in questo modo, la protezione culturale della specie diventa superflua. Nei confronti di Taiwan e del Giappone è legittima qualsiasi operazione di denigrazione e disprezzo, mentre verso un porcile economico e politico come il Myanmar, o il Sudan, bisogna manifestare un rispetto reverenziale e molta sensibilità". Una controprova quasi letterale a proposito proprio del Sudan, ove da decenni infuria una sorta di strisciante genocidio ai danni della minoranza cristiana? "Tutte [le minoranze religiose], in generale, hanno goduto di particolari favori in epoca coloniale (…) come in Egitto o Sudan, appartenere ad una minoranza cristiana può significare una diminuzione di diritti, proprio per reazione alla politica di privilegio delle minoranze perseguita in epoca coloniale" (Alberti, pp.117-8).

Vedi anche nota 380.

[70] Cfr. Furcht 1999b, §3.3. Sul paragone tra condizioni del lavoro nel Terzo Mondo e nell'Europa della Rivoluzione Industriale (ma anche del XIX secolo) si sofferma diffusamente Iraci Fedeli 1990 (cfr. nota 131); ma anche qualche semplice conversazione con appartenenti alle generazioni più anziane può farci scoprire in molte aree contadine dell'Italia antecedente al boom economico degli anni '50-'60 un'arretratezza oggi impensabile (vedi per esempio il documentario RAI sul delitto di Ca' Quinzani, AA.VV. del 24 giugno 2004).

[71] Per dirla in breve, con Geminello Alvi (2002): "Il terzomondismo del Social Forum non bada all'orrore che sarebbe stato il Sud del mondo anche senza i bianchi" (e, si può aggiungere, che il Ruanda lo diventò nel 1994 proprio perchè non vi fu alcun intervento: "sarebbero bastati cinquemila soldati per evitare lo sterminio di un milione di tutsi" scrive Glucksmann, citato in Mieli 2004a).

[72] Si apprezzi ad esempio la pregnanza del termine "impoverito" utilizzato dal Gruppo Abele, citato in nota 60. Esplicito anche Mario Capanna, citato con disapprovazione da Gheddo sul tema della povertà del Terzo mondo, che sarebbe frutto della globalizzazione "organizzata dall'alto", anche perchè "noi siamo ricchi perchè altri sono poveri" (ma quando eravamo poveri anche noi, gli altri erano ricchi?). In questo senso anche l'intervento di Rinaldi (riferimento web in bibliografia) e quello di Bologna, emblematico di un certo atteggiamento di diffidenza verso il progresso, che trova nell'egualitarismo un appiglio potente; vi sarebbero altri passi da citare, ma mi limito a questi due: "il modello di consumo (occidentale) è fondato sull'incentivo progressivo allo sfruttamento delle risorse, alla produzione di beni e, dunque, di rifiuti"; stranamente proprio i paesi capitalisti sviluppati sono i più puliti, appunto perchè la ricchezza nazionale viene in parte reinvestita in salubrità, grazie soprattutto all'innovazione permessa dalla scienza ( per tutto questo cfr. soprattutto Lomborg) e alla riduzione della fecondità che è parte ineludibile della modernità. Si pensi per contro a cos'è successo ai paesi dell'ex-blocco sovietico, o agli sprechi energetici del terzo mondo, ove una materia prima essenziale per la produzione di energia è la legna da ardere. Poi abbiamo anche: "Per quanto riguarda l'innovazione tecnologica (T), è fuor di dubbio che essa ha accresciuto enormemente la qualità della vita ma ha progressivamente peggiorato quella dell'ecosistema planetario; è, inoltre, anche condivisibile il fatto che nel migliorare la qualità di vita dell'uomo ha selezionato fasce di popolazione in maniera asimmetrica (il Nord del benessere e il Sud degli impoveriti) allargando la forbice e, addirittura, spaccandola irrimediabilmente".

[73] Così ad esempio Martelli: "L'attenuarsi della tensione tra est e ovest e l'intensità del processo di crescita dell'ultima fase ciclica di sviluppo, che dura ormai da sette anni, hanno drammaticamente evidenziato gli squilibri che separano il nord dal sud del mondo. La forte crescita dell'economia mondiale non ha influenzato positivamente le condizioni dei paesi in via di sviluppo, in molti casi anzi ha fatto registrare un aggravamento dei dislivelli di reddito e di benessere tra paesi ricchi e paesi poveri" (p.49).

[74] Per quanto riguarda le cosiddette "masse islamiche" si veda Chiti-Batelli, p.11. Le perverse conseguenze degli effetti dimostrativi nei consumi – strettamente legati alla comparazione degli stili di vita – sono al centro della riflessione di Iraci Fedeli, che mette anche in rilievo come le migrazioni, anzichè l'effetto, potrebbero esserne la causa (1990, p.142). Si veda anche Melotti 2004 e, per quanto riguarda il legame con il terrorismo, Oz in nota 208.

[75] Cfr. Battistelli 2002, p.29.

[76] Iraci Fedeli lo nega (1990, p.141).

[77] La questione è più aperta da quello utilitaristico, se la sofferenza psicologica derivante dalla deprivazione relativa diventasse soggettivamente di enorme portata.

[78] Così prosegue la citazione di Sartori in nota 55: "Chi ragiona così forse pensa che il cibo cresca da solo sugli alberi, e che alla sua distribuzione provveda il vento. La realtà è, invece, che l'agricoltore lavora e che il cibo che produce costa. Se lo cedesse gratis morirebbe di fame anche lui. Dunque, il cibo da distribuire ai poveri va pagato. Chi lo paga? Per pagarlo in quantità bastevole occorrerebbe che le tasse di chi le paga (non siamo in tanti, e siamo quasi tutti in Europa, Nordamerica e Giappone e poco più) dovrebbero essere raddoppiate. E chissà se basterebbe. "

[79] Ancora da Sartori 2001a, che così prosegue: "Economia da strapazzo a parte, l'argomento che potremmo sfamare ancora miliardi di persone è falso, inficiato dal fatto che gli esseri umani debbono anche bere. E l'acqua dolce già manca. Nè c'è diavoleria che la possa moltiplicare a sufficienza. E la crisi dell'acqua è già gravissima (tra poco anche in Italia, dove le falde acquifere sono prossime all'esaurimento e alla salinizzazione)". Sartori si occupa ancora di questo cruciale aspetto: si veda in particolare L'acqua manca come si sapeva del 18 luglio 2002, in Sartori e Mazzoleni pp.58-61; il volume contiene un interessante approfondimento di Mazzoleni sul tema. Un punto di vista opposto in Lomborg (cap.XIX), che anche su questo tema sostiene la situazione stia progressivamente migliorando.

[80] Sui benefici effetti della globalizzazione cfr., tra i molti, Ostellino 2002b e Brunetta: ciò che danneggia i paesi più poveri (che non sono tutti quelli "in via di sviluppo") è appunto rimanerne fuori; l'accusa da muovere ai paesi ricchi non è quella di esercitare il neo-colonialismo, quanto piuttosto quella di praticare uno strisciante protezionismo, soprattutto a difesa di settori – quali il tessile e l'alimentare – alla portata dei sistemi produttivi dei PVS (cfr. nota 122); vedi anche le dichioarazioni di Sampson riportate da Kohlhammer, qui in nota 61.

[81] Lo sottolinea Iraci Fedeli (cfr. ad es. 1990, p.103); vedi anche Furcht 1993, p.226.

[82] Dimostratasi tanto efficace quanto vituperata proprio qui in Occidente da chi, rimpiangendo forse il fascino delle società pre-scientifiche, preferisce rimedi sospesi tra tradizione, esotismo e magia – finchè almeno non si tratta di curare malanni seri (su questo Furcht 1999b, §2.3).

[83] Il valore dell'esperienza degli anziani è destinato a scendere nei periodi di mutamento sociale e soprattutto tecnologico. In questi casi, specialmente quando i giovani tendono ad essere più istruiti, il contributo delle generazioni precedenti si svaluta, e con esso tende a scenderne il prestigio; in tali situazioni è facile si profili una frattura generazionale – aggravata magari dalla prevalenza di norme sociali tradizionaliste.

[84] Su questo punto, il principale nodo delle dispute di filosofia demografica, riporto in bibliografia alcuni accorati interventi di Ronchey e Sartori. Si vedano anche Alvi 2002, Teodori p.45 e Nirenstein 1990, p.140.

[85] A questo e soprattutto al rifiuto di propagandare i metodi anticoncezionali penso si riferisse l'espressione di De Marchi "imbecillità demografica vaticana" (intervento radiofonico del 13 settembre 2004).

[86] Un'analisi del peccato in prospettiva utilitaristica in Russell, §I,7.

[87] Aggiungo qui come esemplificazione la conclusione di un breve articolo di Galimberti: "Fuori dai paesi sviluppati, il digiuno non è una virtù perchè è una necessità. Se noi dovessimo scoprire il nesso tra la nostra opulenza e il digiuno coatto di chi non mangia perchè non ha da mangiare e quindi muore [l'asserzione di tale legame è uno dei pilastri del terzomondismo, come già rilevato da Panebianco nel 1989 (cfr. nota 67); lo ribadiscono Kohlhammer e, restando tra i contributi già menzionati, Sartori – vedi le note 78 e 79], allora saremmo investiti da quella che Jaspers, dopo l'esperienza nazista, chiamava la "colpa metafisica" che non è questa o quella colpa, ma la colpa di "essere noi ancora vivi" ". Potremmo chiosare, con le parole di Kohlhammer (p.773) "Evidentemente, in questi casi, il cervello è talmente sommerso dai sensi di colpa da pregiudicare notevolmente il suo normale funzionamento".

[88] Aggiungo quell'esponente un po' eretico che è Küng, che sposa in pieno l'atteggiamento autofustigante, persino in occasione dell'esplosione di intolleranza seguita alla pubblicazione delle vignette danesi: "Ma questa rabbia popolare non si sarebbe potuta sfruttare se l'Occidente non avesse per primo creato una simile polveriera. Ogni giorno i musulmani, dal Marocco all'Indonesia, sentono e vedono le crudeli azioni militari in Afghanistan, in Iraq, in Palestina e in Cecenia, ed è il sentimento di oltraggio provato di fronte a queste notizie che favorisce scoppi violenti come le proteste per le vignette". Evidente il doppio standard di giudiziorispetto ai massacri indonesiani (e islamici) a Timor est, al terrorismo spesso volutamente infanticida in Iraq, Palestina e Cecenia, al sanguinario oscurantismo talebano. Si smentisce però perlomeno il fine pensiero umanistico di "Carlos Venturi, il coordinatore dei giovani Comunisti bolognesi, il quale parlando dei kamikaze che si fanno saltare a bordo di bus pieni di bambini, disse: "Bambini o non bambini, sono finezze da occidentali..."" (Roncone 2006a). Ancora Küng e il doppio standard: "Quanto ad Hamas, ha vinto le elezioni promettendo di liberare il popolo palestinese dalla miseria, dalla corruzione e dall'occupazione. Adesso le democrazie occidentali dovrebbero punire il popolo per aver fatto la scelta democratica che gli era stato chiesto di fare?"; sarei curioso di sapere quale fosse l'opinione dell'illustre teologo all'indomani della vittoria di Haider nelle elezioni austriache (e il popolo tedesco nel 1933, Hitler non l'aveva votato?).

[89] Un buon esempio – che fa il paio con l'intervento di Galimberti – è dato dalla chiusa del commento di Vincenzo Consolo: "È facile dire che si può leggere questo nostro mondo d'oggi, questo nostro presente anche nel tredicesimo canto dell'Inferno. è certo che lo sviluppo, soprattutto nell'Occidente, ha avvelenato il pianeta, l'ha "infernato", l'ha ridotto a un bosco di alberi foschi dentro cui noi suicidi ci siamo imprigionati. è facile vedere qua e là tradimenti, peculati e baratteria dei politici al potere; facile, nei corpi ignudi degli scialacquatori sbranati da cagne fameliche, vedere altri corpi dilaniati da cagne là nelle celle dell'atroce carcere di Abu Ghraib". è facile osservare, viene da aggiungere, come in questo passo si mescolino ingenua idealizzazione del passato per quanto riguarda non solo le condizioni di sopravvivenza dell'umanità (questione discussa in Furcht 1996 §2.2 riguardo al confronto con l'antico regime demografico, e da Lomborg per quanto concerne più in generale la "litania " sul deterioramento ambientale), ma anche la moralità della gestione della cosa pubblica; totalmente unilaterale inoltre la scelta di rendere emblematici del male della tortura nel nostro tempo (che era la regola nelle ere passate) quelle statunitensi in Iraq, fermate se non da un'inchiesta interna perlomeno dall'intervento della stampa libera: proprio Abu Ghraib è uno dei luoghi-simbolo del regime di Saddam Hussein, sotto il quale la crudeltà di massa è assurta a vertici di volontà genocida degni di Pol Pot. Ma allora erano urla dal silenzio: potenza delle ideologie o, piuttosto, delle mode politico-culturali.

[90] È questa una categoria centrale per capire la posizione di gran parte del terzomondismo. Il tema torna spesso in queste pagine: al di fuori di questo paragrafo si vedano il §4.4 e le note 1, 55, 117 (in particolare il commento di Nirenstein), 222 (Reibman).

[91] Ben diverse dalle mie, volgarmente legate al timore che non si sia più a tempo a fermare i terroristi prima che si procurino armi di distruzione di massa (cfr. nota 238).

[92] Ernesto Galli Della Loggia (2002b) rileva che uno dei principali motivi dell'avversione all'intervento USA (in Iraq, questa volta) sia proprio il sentimento di simpatia per i poveri, unito ad un (infondato) senso di colpa verso il Terzo mondo; su questo atteggiamento si vedano anche Foa 2004 e soprattutto Nirenstein 1990, p.25 (riportato in nota 1), pp.138 e segg..

[93] Scrive Lepre: "… può essere più calzante la definizione di "salvianesimo", per indicare il rifiuto dell' Occidente e il vagheggiamento di una società alternativa [un buon esempio mi pare Balducci, cfr. nota 331]. Salviano di Marsiglia, vissuto nel quarto e quinto secolo d.C., era un dotto prete, maestro di vescovi, cioè un importante e tipico intellettuale del suo tempo. Nel De gubernatione Dei si pose la domanda: "Siamo migliori dei barbari?". Rispose: "Quanto a vita e comportamento, dico con dolore e lacrime che siamo peggiori". Deprecava soprattutto il fatto che i poveri fossero oppressi dai ricchi, cosa che spingeva molti a rifugiarsi presso i barbari, cercando tra loro "l' umana civiltà di Roma perchè non ce la facevano a sopportare, stando tra i Romani, la loro barbara inumanità". Erano perciò disposti a superare la "differenza di religione e di lingua"". Un salvianista di punta sembra essere Asor Rosa, che scrive infatti. "Ha torto dunque Huntington a sostenere che questa fase storica è contraddistinta dallo scontro delle civiltà. Questa è la fase storica dello scontro delle civiltà: da ambedue le parti ci sono violenze, sopraffazioni, brutalità e integralismi; ma ambedue le parti hanno buone ragioni e diritti da accampare. Sarebbe giusto che noi ci occupassimo della nostra barbarie mentre, o magari prima, che ci occupiamo della barbarie altrui". Ma l'articolo di Lepre continua così: "Al tempo di Salviano, i "barbari" finirono col prevalere, non soltanto con la forza delle armi, ma anche con una lenta e costante penetrazione. La distruzione della civiltà imposta con la "pax romana" (che molti intellettuali paragonano alla "pax americana") fu alla fine deprecata anche da quanti, per ragioni ideologiche e religiose, l' avevano auspicata. Ma avvenne troppo tardi" (e infatti l'intervento si Asor Rosa è intitolato Contrastiamo la vocazione imperiale). Quanto sarebbe spaventoso un mondo "apolare", esito più probabile della ricerca del multipolarismo geopolitico, ce lo ricorda anche Ferguson su il Foglio: la memoria corre a quanti "rivoluzionari" anni '70 si sono poi retrospettivamente dichiarati felici la rivoluzione non abbia vinto (per esempio Mauro Rostagno, rivisto in I come India).

[94] Che i risarcimenti sottoporrebbero a tensioni sociali intollerabili, cfr. Iraci Fedeli 1990, pp.114-5 e 148.

[95] Dal Dossier 2000 della Caritas, che riporta i risultati di un'indagine Doxa dell'autunno 1999: "il 72% degli italiani si dice poco o per nulla d'accordo con l'affermazione secondo la quale un modo per aiutare i Paesi poveri consiste nel permettere agli immigrati di venire a lavorare e vivere in Italia e circa l'80% degli intervistati pensa che si possa ridurre l'immigrazione solamente aiutando economicamente i paesi di provenienza degli immigrati" (p.204); su quest'ultimo punto si veda il §2.3.

[96] Sul quale si vedano Iraci Fedeli 1990, Fallaci 2001, Ronchey 2003b e anche, in nota 140, la critica di Peretz della tranquillizzante equiparazione della nuova immigrazione con quella del passato.

[97] "Opulento", "opulenza" sono divenuti termini assai popolari (forse gioca anche una assonanza col ricco Epulone della parabola): vedi qui le note 39 (ancora Ferrarotti), 60, 87 e 335; dal punto di vista concettuale, si vedano il "grassa" e "sazia" di Terzani (§1.4).

[98] Su questo punto c'è grande concordanza tra gli osservatori: si vedano ad esempio Melotti (1993, p.46 e 2000a, pp.13-5), Barbagli pp.37 e 126, e il Dossier 2000 della Caritas, p.17.

[99] Con maggiore aplomb Ronchey rileva, in occasione dei tumulti francesi dell'autunno 2005 (ennesimo campanello d'allarme, cfr. nota 31): "L'integrazione dei flussi migratori, nell'Europa degli ultimi decenni, appare più ardua di quanto avessero supposto etnologi e sociologi troppo fiduciosi" (2005a).

[100] "Nessuno può arrogarsi il diritto di pretendere che queste persone restino a casa loro senza disturbare i paesi ricchi, che tra l'altro fanno poco per promuovere il benessere e lo sviluppo su scala mondiale", dal Dossier Caritas 2003. In merito alla seconda parte di quest'affermazione vedi la nota 116.

[101] Un disegno che ricorda da vicino la figura degli Shmoo, uscita dalla geniale matita di Al Capp. Citiamo dalla pagina dedicata nel sito ufficiale a questi immaginari animaletti: "The Shmoo first appeared in the strip in August 1948. According to Shmoo legend, the lovable creature laid eggs, gave milk and died of sheer esctasy when looked at with hunger. The Shmoo loved to be eaten and tasted like any food desired. Anything that delighted people delighted a Shmoo. Fry a Shmoo and it came out chicken. Broil it and it came out steak. Shmoo eyes made terrific suspender buttons. The hide of the Shmoo if cut thin made fine leather and if cut thick made the best lumber. Shmoo whiskers made splendid toothpicks. The Shmoo satisfied all the world's wants. You could never run out of Shmoon (plural of Shmoo) because they multiplied at such an incredible rate. The Shmoo believed that the only way to happiness was to bring happiness to others" (http://www.lil-abner.com/index.html).

[102] Unite a un'intolleranza da medioevo, si veda la nota 283.




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